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Nel breve assistiamo a un mercato che si considera in privazione sensoriale. Ecco che significa

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MILANO (WSI) – Si avvicina il giorno in cui una stella degenere, una stella di neutroni collassati di piccole dimensioni ma di altissima densità, deciderà, nel suo percorso da pallina impazzita, di passare dalle nostre parti. Cominceremo a sentirne gli effetti alcuni decenni prima che sia davvero vicina. Smetterà di funzionare la rete elettrica, le variazioni climatiche faranno rimpiangere le glaciazioni e le radiazioni ci costringeranno a vivere nel sottosuolo. In mancanza di una migrazione interstellare saremo per fortuna già estinti quando la stella si divorerà senza problemi il nostro sole e tutti i suoi pianeti.

Si avvicina anche il giorno, nel nostro nanocosmo e nel nostro nanotempo, in cui, tra bagliori di fuoco, avrà termine il rialzo azionario.

La sua fine sarà preceduta da quella del rialzo trentennale dei bond, già terminato tra i risk free ma ancora in grado di mandare segnali di vita sempre più deboli tra i corporate di qualità mediobassa.

Il sottosuolo del cash, a un certo punto, sarà l’unico rifugio rimasto e non è detto che sarà piacevole. Prevedere la fine e ammonire sul suo avvicinarsi inesorabile è filosoficamente interessante ma è anche banale se non ci si lancia in ipotesi sui tempi e sui modi. Per questo sono apprezzabili i tentativi di definire e quantificare, almeno probabilisticamente, lo spazio che ci separa dalla fine.

James Montier, un sofisticato studioso di mercato di scuola value e di simpatie comportamentiste, sostiene che la fine del rialzo non è necessariamente qui e ora, ma che in ogni caso il di più che il mercato azionario riuscirà eventualmente a percorrere da qui in avanti verrà perduto in seguito.

Il ritorno annuale per i prossimi sette anni, secondo Montier, sarà alla fine uno spettacolare 0.0 per cento. A questo risultato Montier arriva lavorando su cinque modelli, tra cui il cosiddetto Shiller P/E, due sue variazioni che eliminano alcune distorsioni e la Tobin Q, che paragona il valore di una società in borsa con il costo che comporterebbe ricostruirla da zero.

Si tratta di uno sforzo serio basato su modelli seri e su alcune assunzioni di partenza, in particolare quella per cui i margini di profitto attuali, i più alti degli ultimi decenni, non sono sostenibili. Con la salita del mercato verso nuovi massimi questi discorsi, nei prossimi mesi, saranno sempre più presenti nel dibattito. Tanto vale affrontarli fin da adesso.

La prima considerazione è che queste analisi, per quanto sempre utili da conoscere, sono atemporali, astoriche e quindi astratte. Può darsi benissimo che l’SP 500, nel 2021, sia a 1850 come oggi anche senza bisogno di shock esogeni. Il ritorno alla media è del resto una legge potente e, anche se non è una legge divina, è comunque troppo forte per essere preso alla leggera e sfidato impunemente. L’onere della prova, quindi, non spetta a chi la enuncia ma a chi intende invocarne la sospensione del funzionamento.

I margini altissimi degli ultimi anni sono il risultato di molti fattori. C’è una fiscalità bassa per le imprese, che hanno imparato tutte a scegliere dove farsi tassare e ad utilizzare al meglio tutte le agevolazioni possibili. C’è una riluttanza a immobilizzare capitale tenendo scorte oltre lo stretto necessario, anche a costo di perdere quote di mercato in caso di ripresa della domanda. C’è una scarsa o nulla propensione a spendere in investimenti, in particolare a lungo termine. C’è un’attenzione senza precedenti ad assumere solo chi sia strettamente necessario in momenti di ciclo debole, con la disponibilità a rinunciare a una parte della produzione se la domanda si rafforza.

L’elemento più importante resta comunque il costo del lavoro, fermo o declinante dal 2008 grazie all’esistenza di un ampio serbatoio di disoccupati. A questi fattori si è aggiunta, negli ultimi due anni, la ristrutturazione dello stato patrimoniale, con un aumento del debito e una riduzione dell’equity.

Tutti questi fattori, dal primo all’ultimo, torneranno un giorno alle loro medie storiche. Quel giorno è però ancora lontano. Partendo dalle tasse, è vero che i paesi occidentali in crisi finanziaria hanno iniziato a dare la caccia alle sedi fiscali fittizie, ma i risultati sono per il momento modesti e sono più che compensati dalla corsa a tagliare il cuneo fiscale in quasi tutti i paesi e dalla tendenza ad abbassare la corporate tax (alzando magari, a valle, l’imposizione sui dividendi).

Sulla politica delle scorte si vede, qua e là, un allentamento della disciplina spartana (piuttosto evidente nel settore automobilistico americano) ma per adesso si tratta di casi isolati e prontamente puniti dal mercato azionario. Sugli investimenti assisteremo quest’anno a una modesta ripresa, dovuta soprattutto al fatto che l’industria estrattiva si è accorta di avere tagliato troppo la capacità produttiva e ora deve correre ai ripari.

Per il resto non si vede nessun segnale di megalomania. Sono lontanissimi (e non torneranno) i tempi in cui ogni paese medio o anche piccolo voleva a tutti i costi una sua industria nazionale dell’auto o dell’acciaio. Anche la Cina, il paese con la maggiore propensione alla formazione di capacità produttiva in eccesso, è sempre più attenta a investire solo dove e quando ha senso farlo.

Sulle assunzioni si nota in generale un atteggiamento più disponibile, ma non per questo rilassato. Sul costo del lavoro la Germania ha introdotto un salario minimo in via sperimentale, mentre l’amministrazione Obama vuole alzarlo in misura significativa. La Germania è però, unico paese al mondo, in una condizione di pieno impiego e il salario minimo non cambierà molto. Quanto agli Stati Uniti, per il momento si tratta di un’enunciazione propagandistica. In ogni caso la disoccupazione, con l’eccezione tedesca, è ancora alta in tutto l’Occidente ed è tuttora in crescita in alcuni paesi, tra cui l’Italia. In queste condizioni pensare ad un aumento del costo del lavoro è assolutamente prematuro.

Quanto ai buy-back, le quantità sono ormai imponenti in America, ma non sono destinate a calare nell’orizzonte prevedibile. In conclusione, possiamo affermare che il miglioramento del fatturato e i buy-back saranno sufficienti, per i prossimi due-tre anni, a produrre utili per azione più alti anche se gli altri fattori dovessero iniziare a subire un deterioramento.

Non è quindi nemmeno necessaria un’ulteriore espansione dei multipli (che comunque ci sarà) per prevedere borse più alte quest’anno e in grado di contrastare le possibili tensioni sui tassi l’anno prossimo.

Nella pienezza dei tempi la ripresa produrrà un riassorbimento delle risorse inutilizzate. Un giorno, se tutto andrà davvero bene, l’Occidente tornerà alla condizione generalizzata di pieno impiego in cui si trovava alla metà degli anni Sessanta. Questa condizione non si produrrà in questo decennio ma eventualmente nel prossimo.

David Rosenberg sostiene che, dietro l’angolo, c’è una ripresa dell’inflazione salariale negli Stati Uniti. Per qualche tempo nessuno ci farà caso e la Fed continuerà a mantenere negativi i tassi reali. A un certo punto, però, l’inflazione prenderà velocità e i tassi a breve inizieranno a salire. I bond all’inizio non ci faranno caso, ma quando capiranno sarà troppo tardi.

Una nuova edizione degli anni Settanta ci coglierà, come allora, totalmente impreparati. Sono tesi suggestive, ma i tempi vanno calcolati bene. La storia ha i suoi ritmi e ogni tanto accelera tumultuosamente. Per gran parte del tempo, tuttavia, i suoi processi sono lenti.

Laszlo Birinyi, che ha un ottimo senso dei ritmi della storia e dei mercati azionari, sostiene da tre anni che questo rialzo non si fermerà prima di avere raggiunto quota 2400. Lo diceva a 1000 e tutti gli davano del matto, oggi che siamo a 1850 è rispettato e ascoltato. I grandi rialzi di Eisenhower, di Kennedy, di Reagan, di Clinton e di Bush hanno avuto ampie durate e dimensioni e questa volta non sarà diverso.

Chi ama i ritorni alla media deve amarli tutti, anche quelli che indicano la durata media dei mercati in zona di sopravvalutazione. Se siamo in quella zona lo siamo da poco e con l’ampia sottovalutazione degli anni scorsi ci siamo guadagnati il diritto a qualche anno di eccesso di segno opposto. Con l’avvertenza, naturalmente, che a certe altezze si possono incontrare improvvisi vuoti d’aria.

Nel breve assistiamo a un mercato che si considera in privazione sensoriale. I dati macro arrivano, certo, ma non sono omologati causa freddo. La Frozenomics è un’ottima scusa per trascorrere questi due mesi di riaggiustamento delle scorte facendo finta di niente. Se non fosse stato freddo i dati sarebbero stati mediocri lo stesso, le borse non avrebbero avuto alibi e sarebbero scese di più. Tra marzo e aprile avremo il momento della verità. Se i dati tarderanno a migliorare ci sarà una nuova correzione, simile a quella di gennaio. Sarà di nuovo un’occasione di acquisto.

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos Partners SGR – che ringraziamo – ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

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