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La corsa alle risorse minerarie nello spazio, fra geopolitica e dubbi legali

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La corsa alle risorse minerarie nello spazio, fra geopolitica e dubbi legali

Di chi è la Luna? E di chi è Marte? Fino a pochi anni fa questi potevano sembrare interrogativi interessanti solo per i filosofi del diritto, ma le risposte a queste domande saranno sempre più importanti nel prossimo futuro.
Sulla Luna, infatti, è accertata la presenza di minerali preziosi come le terre rare che, con l’avanzata delle tecnologie spaziali, potrebbero essere estratte con profitto. Sul satellite terrestre, in particolare, potrebbe essere ricavato l’Helium-3, un combustibile raro sul nostro pianeta che si trova in abbondanza sulla superficie lunare. La lista include titanio, magnesio, alluminio e molti altri elementi chimici e per ciascuno andrebbe valutata la convenienza di una potenziale estrazione nello spazio.

Risorse minerarie nello spazio: Una rotta tracciata, ma impervia

Lo “space mining”, è una sfida tecnica, giuridica e anche geopolitica.

Parte della corsa allo spazio guidata da progetti privati punta anche a realizzare questo obiettivo. In pochi dubitano che la corsa tecnologica di SpaceX o BlueOrigin, guidate da due fra gli uomini più ricchi al mondo, possa raggiungere la possibilità tecnica dell’estrazione spaziale a costi ragionevoli.
Piuttosto, non è ancora chiaro quali attività possano essere legalmente condotte sui corpi celesti.

Nel 1967 il Trattato sullo spazio extra atmosferico (Outer Space Treaty), la pietra miliare del diritto sullo spazio, aveva messo in chiaro che nessun Paese avrebbe potuto reclamare la sovranità su un corpo celeste, come la Luna. Fra i firmatari compaiono tutte le maggiori potenze spaziali del tempo. Come titolava un rapporto della Observer Research Foundation, “Se lo spazio è ‘una provincia del genere umano’, di chi sono le sue risorse?”. Su questo l’Outer Space Treaty non fornisce risposte chiare.

Nel vuoto giuridico si sono già inseriti il Lussemburgo e, ancor prima, gli Usa di Barack Obama, che nel 2015 avevano dato alla luce i primi testi legislativi in vista dello sfruttamento delle risorse spaziali per fini commerciali. Pertanto, come chiarito dalla professoressa Elizabeth Steyn (Western University) su The Conversation, le società avente sede presso questi Paesi potrebbero contare sul riconoscimento del possesso sulle materie prime estratte.

Nel 2020 l’attivismo degli Stati Uniti ha aggiunto nuovi capitoli importanti. Dapprima, il presidente Donald Trump, tramite ordine esecutivo, ha di fatto rigettato il consenso giuridico dello spazio come bene comune il cui sfruttamento non potrebbe che avvenire sotto supervisione internazionale.
In seguito, gli Arthemis Accords, un’iniziativa della Nasa (sottoscritta da Usa, Italia, Regno Unito, Giappone, Canada, Australia, Lussemburgo ed Emirati Arabi) hanno prefigurato un quadro giuridico di accordi bilaterali incentrato sugli Stati Uniti. In questo modello, le “nazioni partner” accettano di seguire regole statunitensi sullo sfruttamento delle risorse nello spazio.
C’è solo un grosso problema: né la Russia né la Cina, le altre potenze spaziali, hanno aderito a quest’iniziativa e probabilmente non lo faranno mai. Nemmeno storici alleati americani come Germania e Francia hanno accettato di sottoscrivere l’accordo.

Le ultime mosse degli Usa eludono il problema di fondo: “Le questioni legali sulla proprietà delle risorse spaziali devono essere affrontate con urgenza”, ha scritto la Steyn, “per evitare guerre spaziali sulle risorse naturali tra superpotenze come Stati Uniti, Russia e Cina”.