Società

Global tax, pregi e difetti della nuova tassa sulle multinazionali

Una tassa che sia uniforme in tutti i paesi aderenti, e che colpisca le multinazionali che sfruttano i “paradisi fiscali”. La global tax potrebbe diventare realtà molto presto, soprattutto in Italia, visto che lo stesso Ministero dell’Economia e Finanze ha preso sotto sua responsabilità l’onere di recepire la direttiva UE di riferimento entro il 2024.

Come tassa potrebbe favorire l’erario di tutti i paesi aderenti, ma al tempo stesso potrebbe diventare un boomerang per questi ultimi. Il noto irrisolto è infatti quella della tassazione agevolata, e degli investimenti: due punti che potrebbero fare la fortuna di un paese, e la rovina di un altro. Pertanto, si andrebbe da una concorrenza ad un’altra, sempre fiscale ma stavolta più incisiva.

Global tax, al via in Italia dal 2024

Quando si parla di global tax si intende un’imposta che andrà a colpire tutte le aziende, che vogliono investire nei paesi aderenti, con una flat tax minima al 15% sui fatturati di aziende con ricavi uguali o superiori a 750 milioni di euro. Iniziata come proposta, alla fine la global tax è stata ufficializzata a Bruxelles con tanto di direttiva (2522/2022), per poi essere rattificata da (ad oggi) 130 paesi OCSE. Tra questi c’è l’Italia, col via libera del Consiglio dei Ministri del 16 giugno 2023 alla legge di delegazione europea 2022-2023, e alla ricezione della direttiva UE dal 1° gennaio 2024, con un decreto legislativo ad hoc.

La formula italiana della tassa minima è stata già approfondita nello schema del decreto in questione, presentato l’11 settembre. Verrà corrisposta tramite una dichiarazione distinta rispetto alle altre imposte, e sarà ricavata per sottrazione. A titolo d’esempio, se la multinazionale ha versato il 5 % degli utili, la global tax non sarà del 15%, ma solo del 10%. Una specie di conguaglio vòlto a garantire sia una voce attiva nei bilanci dell’erario, sia la completa cooperazione tra le aziende straniere. In particolare quelle che ad oggi detengono la maggior capitalizzazione a livello mondiale: le aziende tech.

Il MEF inoltre sta valutando di introdurre una norma “reshoring”, ovvero di reintroduzione delle aziende che oggi sono off-shore, fuori dai confini nazionali. Se riportano la produzione in Italia, il peso della global tax verrà compensato dal dimezzamento dell’imponibile IRPEF-IRES, con tanto di possibile esenzione IRAP fino a cinque anni. Più una tassazione ridotta se investono, assumono o favoriscono la partecipazione dei dipendenti agli utili. Con questa formula, lo Stato punta a generare un gettito di 3 miliardi di euro, in pratica quanto stimato per la tassa sugli extraprofitti bancari.

Pro della global tax: più soldi in cassa

Si parla di questa tassa da due anni, ma in realtà la questione dietro la global tax dura da più di un decennio, soprattutto in Europa. Nonostante si tratti di Unione Europea, ancora non c’è una parificazione tributaria tra i paesi membri. Ci sono paesi dove la tassazione media delle imprese arriva oltre il 30% (Portogallo, Germania…), mentre ce ne sono altre in cui le tasse rasentano a malapena il 10% (Ungheria, Irlanda…). Questo porta molte aziende a trasferire le proprie imprese in altri Stati, e quindi a contribuire a una concorrenza “sleale”. E questo vale anche al di fuori della Area Euro, con veri e propri “paradisi fiscali”, mete preferite per numerose aziende off-shore.

Le conseguenze dell’introduzione della global tax possono essere molto positive per gli Stati aderenti. Oltre alla fine della concorrenza fiscale, l’introduzione di una imposta societaria porterà ad un aumento delle entrate erariali dell’ordine di miliardi di euro. Solo per l’Unione Europea, stima Tax Foundation, si parla di 40 miliardi di euro in più a fine anno, addirittura di 220 miliardi di dollari per i paesi OCSE. A titolo d’esempio, paesi come Francia, Germania e Regno Unito si vedrebbero aumentare il gettito annuo con la global tax rispettivamente di:

  • 1,5 miliardi di euro (1,58 miliardi di dollari) all’anno a partire dal 2026;
  • tra 1,9 miliardi di euro e 2,2 miliardi di euro (da 2,09 a 2,4 miliardi di dollari);
  • 2,3 miliardi di sterline all’anno entro il 2027-28 (2,7 miliardi di dollari).

A questo si aggiunge il flusso degli investimenti. Non essendoci più un dislivello tra economie avanzate, converrà alle imprese investire in paesi dove sia possibile comunque avere una posizione competitiva soddisfacente, anche se c’è da pagare di più. Non converrà invece rivolgersi a paesi che, seppur garantiscono una tassazione agevolata, sono svantaggiate a livello strutturale (sviluppo, diemsnione, posizione geografica…). Una specie di nuovo assetto economico globale, in cui i paesi UE e Occidentali tornerebbero alla guida.

Ovviamente questo dipenderà dal modello di tassazione. Infatti già da questo punto la global tax può risultare un problema, soprattutto tra paesi fonte e paesi “ricettori” della tassa minima.

Contro della global tax: tassazione e investimenti

L’applicazione della tassa dovrà passare agli Stati di “commercializzazione“, cioè quelli in cui risiedono i consumatori che acquistano servizi e beni dall’azienda in questione. Basta avere 20 miliardi di fatturato mondiale e 10% di margine di profitto per farli considerare come “imponibili”, e provvedere al prelievo fiscale. Questo però solo se l’Afe (aliquota fiscale effettiva) è inferiore al 15%: in questi casi la global tax funge come imposta aggiuntiva (top-up tax) per equilibrare il prelievo.

Da qui la prima controversia della global tax. Il paese d’origine dell’azienda potrebbe adottare un’imposta minima domestica (qualified domestic minimum top-up tax – Qdmtt) per riappropriarsi della quota mancante. Se non lo fa, provvederà lo stato di residenza della casa-madre con una propria income inclusion rule (Iir). Se nemmeno questo accade, solo allora i paesi esteri dove operano le multinazionali possono decidere di ricorrere alla under-taxed payments rule (Utpr), ma con una formula che considera il numero dei lavoratori e il valore delle immobilizzazioni materiali. In pratica una gerarchia fiscale, se non una competizione a chi tassa per primo. Non saranno pochi i paesi a perderci.

Più la questione degli investimenti. Come accennato, la tassazione fissa globale renderà di nuovo competitive le economie avanzate, ma sfavorirà quelle che hanno utilizzato questa leva fiscale per compensare gli svantaggi competitivi strutturali di cui soffrono. Questo significa impedire ai paesi in via di sviluppo di poter ambire a diventare paesi stabili, se non avanzati. Come riporta La voce, in uno studio di Serrato del 2019, “l’aumento del costo del capitale a Puerto Rico dovuto alla riforma fiscale americana del 2017 evidenzia come le multinazionali abbiano massicciamente delocalizzato occupazione e investimenti fuori dall’isola caraibica“.

E questo non tanto per i paesi in via di sviluppo, ma anche per le economie UE. Ci saranno stati come Regno Unito, Francia, Germania e Italia che potrebbero vedere garantite le proprie posizioni fiscali, a patto di usare strumenti come i crediti per la ricerca e sviluppo, oppure tassazioni agevolate per investimenti e assunzioni. Così come stati come Irlanda, Svizzera e Singapore che dovranno spostare la competizione su altri fronti fiscali, come i contributi sociali sul lavoro, le imposte sulla proprietà immobiliare e altro. E per finire quelli che appunto, senza la leva fiscale, non riusciranno a compensare il loro svantaggio strutturale iniziale.