Società

Diamo per favore un passaporto a Berlusconi. Lui: “Se lo avessi me ne andrei ad Antigua”

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news

ROMA (WSI) – «Avessi il passaporto me ne andrei ad Antigua», ma non è per sfuggire alla condanna giudiziaria che ieri Berlusconi diceva di voler cambiare aria, bensì per evitare la tortura politica di queste ultime ore, la vera pena aggiuntiva alla quale si è sottoposto per sua responsabilità, per quell’errore del 2 ottobre, che per i lealisti risiede nell’«improvvida retromarcia sulla fiducia al Senato» e per gli innovatori sta nel «maldestro tentativo di buttar giù il governo». Comunque la si interpreti, è quella la colpa del Cavaliere, che con la sua mossa ha provocato il successivo pandemonio nel partito, senza poi essere in grado di gestirlo.

Pur di riprendersi ciò che era suo, sta già scontando un anticipo dei servizi sociali, tra le cene con i falchetti della Santanchè, i pranzi con Fitto, le nottate con Alfano, e quella montagna di comunicati degli uni contro gli altri che sta soffocando nella culla Forza Italia prima del battesimo. Perché l’attesa del Consiglio nazionale non è certo di letizia, ma sa di truculento tramestio, a un passo da una scissione che appare sempre più vicina eppure non ancora certa, siccome «il capo sono io» ripeteva per darsi vigore ieri sera Berlusconi, intenzionato ad evitare – non si sa come – quella rottura che lo presenterebbe indebolito al drammatico appuntamento con la decadenza.

Ed è vero che «il divorzio non conviene a nessuno», su questo aveva convenuto con Alfano l’altra notte, ma l’intesa verbale raggiunta con il vicepremier era fragile ben prima che venisse presentata a Fitto e a quell’area del partito già pronta a contrastare il patto con la forza dei numeri e di un altro documento, in cui non si concedeva nulla agli innovatori: né la riconvocazione dell’Ufficio di presidenza del Pdl, né i due coordinatori «a garanzia» delle due correnti, né tantomeno la prosecuzione dell’appoggio al governo che gli alfaniani definivano «di legislatura» e non «di scopo». Angelino lo sapeva, e infatti si era congedato da Berlusconi con lo stato d’animo di chi aveva già vissuto questa scena e ne conosceva il finale: «Non glielo consentiranno. I falchi non glielo consentiranno, presidente».

Eppure per tutta la giornata si è protratto il rito della trattativa, e nessun luogo è stato risparmiato alla bisogna, nemmeno il Quirinale, se è vero che nel Salone delle feste – in attesa dell’ingresso del Papa e del capo dello Stato – i dirigenti del Pdl si scambiavano di posto per parlarsi, prima di appartarsi con il cellulare stampato all’orecchio e poi riprendere a discutere animatamente. Finché lo staff del cerimoniale non è intervenuto per invitare gli ospiti indisciplinati a rimettersi ognuno al proprio posto. Forse lì è stato partorito il documento dei mediatori che ha fatto il giro delle sette chiese del Pdl, portato in processione da Gasparri e da Romani, corretto e cancellato non si sa quante volte, fino allo sfinimento.

Il fatto è che, mentre si tentava la mediazione, Berlusconi provava l’atto di forza con gli innovatori, un po’ per verificare se i numeri di Alfano fossero veri, un po’ (anzi soprattutto) per azzerarli. Così si metteva all’opera con i senatori renitenti, usando al telefono quella voce e quei ragionamenti che per due decenni gli hanno consentito di ottenere (quasi) tutto, ammaliando e promettendo un futuro roseo, un avanzamento di carriera. L’impresa però si è rivelata più difficile di quanto immaginasse, perché – giurando che lo facevano «per il suo bene, presidente» – gli hanno risposto che «no, per noi il governo deve andare avanti».

I numeri a Palazzo Madama garantiscono la sopravvivenza delle larghe intese, i numeri a Forza Italia sanciscono invece la prevalenza dei lealisti, e Fitto ha buon gioco a rivendicarlo, per ribadire che «una maggioranza non può assoggettarsi ai voleri di una minoranza», e a mettere di fatto Berlusconi dinnanzi a una scelta: o noi o loro. Ecco, è proprio la posizione assunta infine dal Cavaliere, quella di arbitro cioè tra due contendenti, a lasciare ancora aperto uno spiraglio, a tenere tutti con il fiato sospeso, a far ipotizzare un colpo di scena prima della fine.
Se non arriverà entro mezzogiorno di oggi, sarà impossibile disinnescare il timer della rottura, e il Cavaliere – ormai circondato dalla sua stessa maggioranza – dovrà decidere l’entità dello strappo: una separazione giudiziale, con tanto di guerra dichiarata ai «traditori», o una separazione consensuale con «quegli amici» che saranno compagni di strada del futuro centrodestra. In fondo questo voleva dire Alfano quando – parlando del battesimo di Forza Italia – ha spiegato che «o sarà la festa di tutti o eviteremo di rovinare la festa al nostro presidente». In verità la festa è già finita. E se sarà scissione avranno perso tutti.

Il contenuto di questo articolo, pubblicato dal Corriere della Sera – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

Copyright © Corriere della Sera. All rights reserved