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Cuperlo si dimette da presidenza PD. Verso la scissione?

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ROMA – Gianni Cuperlo si è dimesso da presidente del Pd. È terremoto in casa democratica il giorno dopo la Direzione che ha visto Renzi piegare la minoranza sulla proposta di legge elettorale. Durante la riunione della minoranza alla Camera Cuperlo ha annunciato la sua decisione di persona leggendo la lettera che ha inviato al segretario Matteo Renzi per motivare la sua decisione.

«Mi dimetto perché sono colpito e allarmato da una concezione del partito e del confronto al suo interno che non può piegare verso l’omologazione, di linguaggio e pensiero. Mi dimetto perché voglio bene al Pd e voglio impegnarmi a rafforzare al suo interno idee e valori di quella sinistra ripensata senza la quale questo partito semplicemente cesserebbe di essere», è il passaggio centrale del lungo messaggio a Matteo Renzi. «Ancora ieri, e non per la prima volta, tu hai risposto a delle obiezioni politiche e di merito con un attacco di tipo personale», è l’accusa di Cuperlo.

«Tra i moltissimi difetti che mi riconosco – prosegue Cuperlo – non credo di avere mai sofferto dell’ansia di una collocazione. Ieri sera, a fine dei nostri lavori, esponenti della tua maggioranza hanno chiesto le mie dimissioni da presidente per il “livore” che avrei manifestato nel corso del mio intervento», scrive citando la dichiarazione di ieri della senatrice renziana Rosa Di Giorgi. «Leggo da un dizionario on line che la definizione del termine corrisponde più o meno a “sentimento di invidia e rancore”. Ecco, caro segretario, non è così – scandisce Cuperlo -. Non nutro alcun sentimento di invidia e tanto meno di rancore. Non ne avrei ragione dal momento che la politica, quando vissuta con passione, ti insegna a misurarti con la forza dei processi. E io questo realismo lo considero un segno della maturità».

Il giorno dopo la Direzione del Pd è dunque scontro aperto sulla legge elettorale. Cuperlo non aveva nascosto il malcontento per una «proposta non convincente, che non garantisce né agli elettori il diritto di scegliere i loro rappresentanti, nè una sicura governabilità». Parole di fuoco anche contro «la rilegittimazione politica di Berlusconi» che ha prodotto «lo smarrimento dei nostri elettori», contro il metodo del prendere o lasciare, perché «se è così è inutile riconvocare la Direzione tra quindici giorni sul job act, non funziona così un partito». Alla fine della Direzione, poi, il gesto eclatante di Cuperlo, che si è alzato infuriato lasciando il suo posto.

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«È stato un attacco grave e personale, ma io non mi dimetto». Per uno solitamente dialogante e dai modi gentili come Gianni Cuperlo, l’uscita di scena mentre parla il leader equivale alla celeberrima scarpa sbattuta da Nikita Kruscev sul tavolo dell’Onu: facendo le debite proporzioni, è comunque la massima espressione di dissenso.

Lo strappo della minoranza era annunciato, ma l’epilogo della direzione pd è l’inizio di una battaglia inevitabile. Si giocherà voto per voto, magari in asse con Ncd e centristi, per modificare in Parlamento l’Italicum di Renzi e Berlusconi.

L’annuncio della rottura è tutto nei gesti di Cuperlo, che all’improvviso si alza dal tavolo della presidenza, volta le spalle a Renzi e fila via verso l’uscita, mentre il segretario «con amicizia» lo bacchetta: «Gianni, avrei voluto sentirti parlare di preferenze quando vi siete candidati nel listino senza fare le primarie…».

Un affondo che scatena la rabbia di cuperliani e bersaniani, fa scattare dalla seggiola anche l’ex viceministro Stefano Fassina («Inaccettabile!») e chiude in un ristorante del centro amato da Bersani la metà dei 34 che si erano astenuti sulla relazione. Una cena di crisi dove Zoggia, D’Attorre e gli altri discutono fino a notte per convincere Cuperlo a far rientrare l’ipotesi di dimissioni del presidente del Pd. «Ne stiamo ragionando tutti insieme», conferma Fassina alle 20.28 e smentisce come «assolutamente infondata» la voce che sia stato lui a pressare il presidente perché si dimettesse.

I cuperliani pensano che Renzi lo abbia «provocato» proprio per spingerlo a mollare l’incarico, per questo l’idea del passo indietro rientra che è notte. «Cuperlo lasci la presidenza del Pd – attaccava nel pomeriggio la senatrice Rosa Maria Di Giorgi -. Il livore e l’astio che hanno caratterizzato il suo intervento contro il segretario rendono evidente che non è in grado di garantire la terzietà di un ruolo di garanzia». Una posizione che Pina Picierno, a nome della segreteria, dirà a sera di non condividere.

La scelta dell’ala sinistra di astenersi non dice quanto alto sia il livello dell’arrabbiatura e si spiega con le divisioni della minoranza: se Cuperlo avesse scelto di votare contro la relazione del leader, i Giovani turchi di Matteo Orfini non lo avrebbero seguito.

E però la contrarietà è forte. Alla sinistra non è piaciuto il metodo, è dispiaciuto (molto) il fatto che Silvio Berlusconi abbia varcato la soglia del Nazareno e, soprattutto, non è andato giù il contenuto della bozza di legge elettorale.

All’ora di pranzo gli animi nella sala Berlinguer della Camera, dove si è riunito il «correntino» di minoranza, erano parecchio infuocati. L’intenzione è quella di non andare alla guerra, ma di discutere nel merito, per ottenere (dopo il doppio turno) anche le preferenze. Per contenere i toni si decide di non far parlare i più duri come Fassina, lasciando la parola davanti al parlamentino al solo Gianni Cuperlo.

Ma in direzione Renzi va giù duro, insinua che la minoranza si prepari a usare «strumentalmente» l’argomento delle preferenze per ottenere «un’eco mediatica», esprime «gratitudine» al Cavaliere e ammonisce con forza Cuperlo e compagni, per la «subalternità culturale» e la «ostilità pregiudiziale» verso l’ex premier.

Argomento, quest’ultimo, che infastidisce i bersaniani quanto un dito nell’occhio, prova ne siano gli hashtag coniati dalla pasionaria Chiara Geloni durante la direzione, da #primarieteetuasorella a #volevoignorarlomanonciriesco.

La premessa di Cuperlo è che la minoranza non vuole restare «ferma immobile sulle gambe», né intralciare la riforma. Anzi, vuole essere «protagonista» della nuova Repubblica: «Ma la proposta non è ancora convincente, non garantisce rappresentanza adeguata né ragionevole governabilità, con le liste bloccate non permette agli elettori di scegliersi i parlamentari…».

E poi, cala l’asso l’ex sfidante delle primarie, «temo che sussistano profili di dubbia costituzionalità e farsi riscrivere per la seconda volta la legge dalla Corte è uno scenario non auspicabile, né ragionevole». Massimo D’Alema sceglie di non parlare dal palco, Veltroni media tra Renzi e Letta e Franco Marini, che pure alle primarie aveva sostenuto Cuperlo, apre alla riforma di Renzi.

Cuperlo, invece, ha da eccepire anche sulla soglia del 35 per cento per accedere al premio di maggioranza, «troppo bassa». E non accetta che Renzi abbia impugnato i tre milioni di voti delle primarie per affermare, in sostanza, che la legge elettorale si farà come dice lui: «Bene, allora è inutile convocare la direzione… Funziona così un partito? Io temo di no, credo di no, spero di no!».

Ora l’opposizione vuole un referendum tra gli iscritti e si prepara a lanciare una campagna di comunicazione, per chiedere primarie per legge e spiegare agli elettori che la nuova legge gli impedirà di scegliersi i rappresentanti.
«La replica di Renzi è stata ingenerosa – commenta l’ex ministro Cesare Damiano -. Il nostro atteggiamento è costruttivo, mi pare non si possa dire altrettanto del segretario. Il suo modello elettorale apre una grave ferita e in Parlamento bisognerà fare una battaglia». Tra di voi si teme che il leader voglia spingervi alla scissione, è così? «Io non so quale sia il suo obiettivo -risponde Damiano – ma una minoranza quando non è d’accordo lo dice, si vuol negare anche questo?».

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Corriere della Sera – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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