Società

Come tutelare il lavoro in un mondo sempre più popolato?

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di Antonino Papa*

Siamo circa 8 miliardi nel mondo che diventeranno (io di certo non ci sarò) circa 10 miliardi nel 2100, che segnerà una battuta d’arresto nella crescita demografica. E’ quanto si apprende da uno studio di Max Roser, ricercatore presso la Oxford University, filosofo e demografo, il cui rapporto è stato di recente pubblicato dall’ente da lui fondato Our World In Data.

La crescita della popolazione in un spazio fisico limitato (perché il nostro pianeta non è infinito) comporta naturalmente criticità che prima o poi vengono sempre al pettine, come ad esempio il cibo per tutti, lo spazio fisico, la carenza di acqua dovuta ai mutamenti climatici, la scomparsa di intere città dovuta allo scioglimento dei ghiacciai ai poli e conseguente innalzamento del livello dei mari e così via ma, guardando ad un futuro non lontano. Ma la sfida più ardua che ci attende è la salvaguardia del lavoro, che si contrappone alla logica del profitto e delle economie di scala e al sempre più invasivo utilizzo della tecnologia e di intelligenze artificiali in sostituzione degli umani.

La sfida del lavoro

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) il tasso di disoccupazione a livello globale nel 2022 si attesterà al 55,9%, che tradotto significa che il mondo intero sarà sempre più trainato da una minoranza dei suoi abitanti coadiuvati da milioni di macchine, androidi, robot e computer.

Se questo trend alla digitalizzazione di ogni processo dovesse proseguire la sua ascesa, i governanti di tutti i paesi del mondo si troveranno a dover sfamare una sempre più crescente fetta di popolazione, soprattutto nei paesi più avanzati (per logiche ragioni) che si aggiungono ai sempre più numerosi popoli del terzo mondo, che crescono molto più velocemente di quanti posti di lavoro riescano a produrre.

E la sfida è proprio questa: far sì che il numero degli occupati superi il numero dei nati al netto dei (purtroppo) decessi e ciò semplicemente per mantenere lo stato attuale tenendo conto che molti disoccupati sono creati dal cosiddetto progresso tecnologico.

Il compito non è semplice e sebbene in molte nazioni stiano già applicando il famoso detto lavorare meno per lavorare tutti, ciò non è sufficiente a mantenere elevato il livello di benessere, perché inevitabilmente gli stipendi ne risentiranno e di conseguenza i consumi e così via.

Se prima dell’avvento massivo dei personal computer il lavoro svolto da 10 impiegati, o operai, necessitava appunto di 10 persone oggi questo rapporto è stato sovvertito a tal punto che bastano 2 soli individui per svolgere il lavoro di 10. Paradossalmente bisogna guardare indietro per programmare un futuro più sostenibile, tanto per usare una parola di tendenza.

Addirittura Roberto Vacca, filosofo e futurologo, aveva previsto un Medioevo Prossimo Venturo proprio a seguito di una pandemia ed era solo il 1971.

Investire nel Terzo Mondo

Tornando al presente, le soluzioni logiche percorribili sono principalmente due. La prima consiste nel convincere i governi dei paesi industrializzati ad investire massivamente, e continuativamente per almeno un  decennio, nei paesi del Terzo Mondo e i benefici di ciò si tradurrebbero innanzitutto in un decremento della popolazione non occupata e uno stop quasi repentino del fenomeno dell’emigrazione di massa, con tutto ciò che ne consegue.

In pratica il mondo intero dovrebbe ripetere il miracolo tedesco del post crollo del Muro di Berlino, quando la ex Germania Occidentale dopo la riunificazione prese sulle spalle la parte Orientale e attraverso una politica aggressiva d’investimenti in infrastrutture, e facilitazione alla nascita di imprese, elevò il livello socio-economico dei tedeschi dell’Est, fino al punto in cui in tutta la Nazione non vi fossero disparità tra i cittadini dell’Est nei confronti degli Occidentali in ambito di qualità della vita, salari ed efficienza dei servizi.

Naturalmente ciò è stato possibile grazie a una inscalfibile unità del popolo tedesco che difficilmente è riscontrabile tra i governi dei Paesi G che oggi sono 20 e che hanno interessi e mire espansionistiche differenti ma soprattutto divergenti visioni del futuro del pianeta.

In ogni Nazione, anche le più virtuose, vi è una enorme dispersione di capitali dovuta agli sprechi o ad iniziative superflue che non conducono ad alcun beneficio concreto permanente ma sono soltanto esperimenti atti ad ottenere consensi da parte di formazioni politiche in vista di elezioni (nelle nazioni in cui ancora si vota).

Sarebbe già un ottimo inizio decidere di rinunciare a parte di tali iniziative per destinare le risorse ad investimenti in Paesi di Africa ed America Latina, ad esempio, al fine di creare occupazione e non lasciare ciò a rari benefattori e fondazioni che elargiscono ingenti somme per costruzione di strutture sanitarie, scuole e tutto di cui i paesi più poveri hanno bisogno per adeguare i servizi ad un livello minimo di decenza, ciò, in piccolo, crea economia e lavoro.

Questo dovrebbe essere solo un primo test per comprendere se si può andare in questa direzione o meno per poi decidere di investire sul serio per elevare i paesi del terzo mondo al livello dei citati Paesi G.

Ritorno al passato

Una seconda, sempre logica soluzione, sarebbe porre un freno al progresso tecnologico in ambito produttivo e di erogazione dei servizi, in modo tale da diluire nel tempo le nuove scoperte al fine da dare il tempo al mondo intero di livellare verso l’alto la percentuale di occupati. In pratica, più umani e meno macchine con una regìa unica che elasticizza la percentuale di digitalizzazione delle aziende, nazione per nazione, per far sì he il famoso rapporto tra occupati e popolazione mondiale aumenti tenendo conto della crescita demografica al netto dei decessi.

In pratica, un ritorno al passato. Potrebbe sembrare un paradosso, ma bisogna pensarci per tempo perché in un’economia se non c’è chi spende, diminuiscono i consumi e di conseguenza se sempre meno persone guadagnano viene a mancare il presupposto basilare che fa girare l’economia: il consumatore di beni e servizi.

Ciò che è applicabile a una società di 100 individui lo è anche per 8 miliardi perché i princìpi della finanza e dell’economia non mutano. Se non si vuole rischiare un default mondiale, con conseguente pressione delle popolazioni dei continenti poveri sui paesi dell’emisfero settentrionale bisogna far sì che quel 55,9% diventi almeno 49% e riporti un certo equilibrio tra occupati e non.

 

 *56 anni, di cui 30 di esperienza nel settore bancario, attualmente consulente in materia d’investimenti e gestore di patrimoni. Ha sempre avuto una forte passione per il giornalismo non solo in ambito finanziario. Collabora come opinionista per una testata con sede al Sud con articoli su varie tematiche.