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BIPOP: PRIMA MI PRESTO I SOLDI E POI TI ROVINO

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E come poteva mancare la Enron? No, non poteva. E infatti c’è anche il mostruoso crac della società elettrica americana di Kenneth Lay nelle 53 pagine con cui la procura di Brescia ha appena chiuso le indagini sullo scandalo della Bipop-Carire, banca nata dalla fusione tra Popolare di Brescia e Cassa di Reggio Emilia.

Quelle dedicate alla Enron sono poche righe, nella descrizione del disastro bancario tracciata dai pubblici ministeri bresciani Giancarlo Tarquini, Antonio Chiappani e Silvia Bonardi, ma servono per meglio chiarire le attività di quello che i tre pubblici ministeri chiamano un «comitato occulto d’affari». Perché gli inquirenti, che dopo due anni di inchiesta ora stanno per chiedere il rinvio a giudizio per 45 indagati, fra le tante operazioni di finanza allegra imputate al management della Bipop-Carire, e sistematicamente nascoste a investitori e azionisti, hanno accertato anche un’esposizione di 50 milioni di euro nei confronti di 50 società a rischio, fra le quali proprio la Enron. I reati ipotizzati dalla procura bresciana sono molti e gravi. Si sale dall’aggiotaggio al falso, dall’appropriazione indebita all’associazione per delinquere, che finora era stata utilizzata nel settore soltanto per il crac del Banco ambrosiano.

Per i suoi colpi di scena lo scandalo Bipop-Carire sembra quasi un giallo di Agatha Christie. Anzi, assomiglia proprio ad Assassinio sull’Orient Express: perché c’è il cadavere, c’è un treno che s’è fermato sotto la valanga e c’è perfino un investigatore che s’è visto passare davanti l’assassino. La soluzione del giallo, adesso, dovranno trovarla i giudici bresciani: dovranno dire chi ha ucciso la Bipop-Carire, un istituto di credito che fino a due anni fa correva come un treno e che è finito acquisito dal gruppo Capitalia. E forse dovranno stabilire perché mai Hercule Poirot, cioè la Banca d’Italia, non si sia accorto di nulla pur viaggiando su quello stesso convoglio.

Iniziata con la fusione tra i due istituti di Brescia e di Reggio nell’estate del 1999, la storia della Bipop-Carire descrive la classica parabola di una «banca dei miracoli» che cresce a dismisura e alla fine esplode in una bolla di sapone. A guidarla, negli anni del boom, si alternano due dei 45 indagati di oggi: il bresciano Bruno Sonzogni, ex parà della Folgore, e il romano Maurizio Cozzolini. Per tutti, i due amministratori delegati sono veri geni della finanza. Lanciata sui sentieri dorati della new economy, la Bipop-Carire acquista banche e società. Spesso prevale la megalomania.

Un’operazione per tutte: nel 2000 Sonzogni compra per 2,5 miliardi di euro la tedesca Entrium, una «banca sul web». Nel marzo di quell’anno, al vertice della quotazione di 12,6 euro per azione, la Bipop-Carire vale oltre 20 miliardi d’euro: come la Fiat.

Poi la finanza via internet rallenta, si ferma, e cominciano le difficoltà per chi ci ha investito tanto. I primi scricchiolii di bilancio risalgono alla fine dell’estate 2001. Quindi un esposto dell’Adusbef, l’Associazione per la difesa degli utenti di servizi bancari e finanziari, denuncia alla procura di Brescia gravi irregolarità: «Ci viene segnalato» riferisce Elio Lannutti, presidente dell’Adusbef, «che esiste una lista di clienti privilegiati della banca: ottengono affidamenti miliardari. E i soldi, in parte, servono per acquistare azioni della Bipop-Carire e tenerne artificialmente alto il prezzo».

La situazione precipita. Nell’ottobre 2001 parte l’inchiesta giudiziaria. Intanto la Kpmg, società di revisione, boccia i bilanci della Bipop-Carire: è la prima volta, tanto che ora i pm bresciani ipotizzano che i consulenti della stessa Kpmg, per troppo tempo, abbiano «limitato la propria analisi a mero e acritico recepimento dei dati forniti dalla banca».

Nei conti, improvvisamente, emergono le perdite, si scoprono sofferenze e ammanchi. Passano i mesi e migliaia di risparmiatori possono solo piangere sui soldi versati. Nel 2002 l’istituto viene inglobato nel gruppo bancario Capitalia. Infine l’azione Bipop-Carire viene cancellata da Piazza Affari.

Oggi, sulla base di 80 mila pagine fra documenti e testimonianze, i pm si sono convinti che in due anni i 45 indagati e il loro «occulto comitato d’affari» abbiano saccheggiato la banca: cercando di arginare il crollo della new economy eseguivano spericolate operazioni sui future per somme quasi pari a 5 mila miliardi di lire al giorno; e i clienti «garantiti», spesso gli stessi manager inquisiti, avrebbero ottenuto centinaia di milioni d’euro senza garanzie.

Uno degli indagati, il bresciano Mauro Ardesi, si difende con i denti: è stato il primo azionista privato della banca, con il 9 per cento, ma è uscito dal consiglio d’amministrazione alla fine del 2000. Assistito dal penalista Gian Piero Biancolella, Ardesi sostiene di essere la principale vittima dello scandalo. Perché, dice, è stato «tirato dentro» nell’acquisizione Entrium, indebitandosi per mille miliardi di lire e consegnando tutte le sue azioni in pegno alla Banca popolare di Milano. Ardesi, però, si era impegnato anche a non venderle per due anni. Questo impedimento, con il successivo crollo di borsa, gli ha strappato l’intero patrimonio.

Intanto, mentre sta per partire la richiesta di rinvio a giudizio penale e l’Adusbef ha già ricevuto un mandato da 4.800 risparmiatori che vogliono costituirsi parte civile contro i futuri imputati, a Brescia sono state avviate decine di cause civili contro il gruppo Capitalia, in quanto «erede» del buco. L’avvocato Antonio Tanza da solo ne segue una cinquantina: «So che anche la Capitalia vuole essere parte civile nel processo penale» dice. «Bene. A me, per ora, si sono rivolti oltre 600 risparmiatori danneggiati. Anche noi chiederemo risarcimenti, ma credo che sarà la Capitalia a pagarli».

Resta il capitolo Banca d’Italia. I pm bresciani accusano 32 manager della Bipop-Carire di avere «sistematicamente omesso e occultato» la verità dei conti alle autorità di controllo. Prima dello scandalo, la Banca d’Italia aveva condotto un’ispezione nel 1997. Dopo la denuncia delle malversazioni, una nuova ispezione era partita nell’ottobre 2001 e si era conclusa nell’aprile 2002 con «un giudizio nettamente negativo sulla gestione».

Ma c’è chi ora attacca anche l’istituto centrale. L’accusa non è da poco: omessa vigilanza. «In via Nazionale» sostiene Lannutti «si conosceva lo scandalo Bipop-Carire sei mesi prima che scoppiasse: l’11 aprile 2001 il vertice della vigilanza di Bankitalia si era incontrato con tre ex consiglieri reggiani della banca». Perché, chiede l’Adusbef, non è stato fatto nulla già allora? È un giallo nel giallo. Ci vorrebbe davvero un Poirot.

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I NUMERI DI UN DISASTRO

Le principali cifre del disastro Bipop-Carire contenute nelle accuse della procura di Brescia

2,58 miliardi di euro il valore quotidiano di rischiose operazioni speculative sui future, eseguite dalla Bipop-Carire e nascoste alla Banca d’Italia.

536 milioni di euro il buco improvvisamente scoperto nei bilanci dell’istituto alla fine del 2001.

250 i clienti vip delle gestioni patrimoniali della banca, tra i quali anche la Caritas bresciana, cui venivano garantiti rendimenti elevati per gonfiare la raccolta.

490 i milioni di euro concessi nel 2001 senza garanzie a 10 tra clienti e amministratori della banca stessa.

94 i milioni di euro erogati dalla banca nel solo giugno 2000 a una serie di clienti e amministratori, allo scopo occulto di acquistare azioni della Bipop-Carire per sostenerne il prezzo.

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