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Altro che Tobin Tax. Giappone detassa investimenti per anni

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MILANO (WSI) – Il primo settembre 1923 la terra comincia a tremare a Tokyo. È mezzogiorno e nelle case i fornelli sono accesi per il pranzo. Migliaia di abitazioni prendono subito fuoco. La gente si riversa nelle strade ma il calore degli incendi scioglie l’asfalto e blocca i movimenti.

In 38mila cercano rifugio in un grande deposito dell’esercito, ma il fuoco li raggiunge anche lì e li incenerisce tutti. Le fiamme sono alimentate da un tifone e proseguono per giorni. Scoppia subito un’epidemia di tifo. Le vittime sono 148mila, le case distrutte mezzo milione. Si diffonde la voce che gli incendi sono stati appiccati dai coreani. Non è vero, ma in una settimana le ronde di quartiere ne massacrano 10mila.

Il Giappone del 1923 è la nona potenza industriale del mondo ed è governato da un’élite anglofila e liberale, che nella Grande Guerra si è schierata dalla parte giusta e ha avuto in premio la possibilità di mettere un piede in Manciuria. Il terremoto blocca però il paese, che entra in stagnazione in una fase in cui l’economia globale è in crescita. Le banche vengono sostenute con prestiti del Tesoro, ma nel 1927 si diffonde il panico e la borsa di Tokyo si dimezza di valore.

Si cerca di ridare fiducia preannunciando con largo anticipo l’adozione della parità aurea a partire dal gennaio 1930 (così come si fa ai giorni nostri in Europa orientale quando si prospetta l’ingresso nell’euro). La parità viene adottata nei tempi previsti e con uno yen sopravvalutato.

L’intenzione è quella di provocare deflazione all’interno, in modo da rendere più competitivo l’export giapponese. Il timing è quanto mai infelice (come aprire la finestra, commenta un industriale, mentre sta arrivando il tifone) e la deflazione, già nell’aria, irrompe con forza.

L’uomo che ha il coraggio di prendere rapidamente atto che la parità aurea rischia di fare precipitare un’economia che fino a quel momento è comunque riuscita a contenere i danni è il nuovo ministro delle finanze, il visconte Takahashi.

Figlio illegittimo di una famiglia di piccolissima nobiltà e allevato da un pastore americano nella fede protestante, Takahashi se ne parte dodicenne per l’Inghilterra e poi per la California. Si adatta a qualsiasi lavoro. Quando torna inizia la sua carriera nei ministeri e nella Banca del Giappone, di cui diventa governatore. Negli anni Venti guida un governo, ma è nella veste di ministro delle finanze, dal 1931 al 1936, che dà, già ottantenne, il meglio di sé.

Da anglofilo appassionato, Takahashi segue con grande interesse la vicenda dell’abbandono della parità aurea da parte della Gran Bretagna. È il settembre del 1931 e già in dicembre anche il Giappone è fuori. Lo yen inizia subito a scendere (alla fine avrà svalutato del 40 per cento).

I tassi d’interesse vengono dimezzati, dal 6 al 3 per cento. La Banca del Giappone effettua acquisti massicci di titoli governativi, un Quantitative easing ante litteram. La spesa pubblica viene subito aumentata nonostante il Giappone abbia già un debito pubblico pari al 50 per cento del Pil, per l’epoca molto alto.

Grazie a Takahashi il Giappone riduce a due trimestri non terribili il tributo alla Grande Depressione e inizia subito a riprendersi mentre il resto del mondo si inabissa. Le esportazioni migliorano rapidamente, poi è la volta dei consumi e infine degli investimenti. Dal 1932 al 1936, gli anni di Takahashi ministro, il Pil giapponese cresce del 55 per cento.

Purtroppo la ripresa coincide con il diffondersi di idee ultranazionaliste e imperialiste nei ranghi intermedi dell’esercito e poi nello stato maggiore. Il boom economico, si dice, crea un fabbisogno di materie prime che solo l’espansione in Cina e oltre potrà soddisfare.

L’imperatore, che ha studiato in Inghilterra, e l’élite anglofila cercano di contrastare queste pressioni. L’Occidente non li aiuta molto. L’America vara leggi razziali contro l’immigrazione dal Giappone e la Gran Bretagna, timorosa per le sue colonie asiatiche, rafforza la sua marina ma vota alla Società delle Nazioni contro il riarmo giapponese.

Ironia della storia, Takahashi viene ucciso da un colonnello nel 1936 nel corso di un golpe organizzato da quell’esercito che tanti vantaggi aveva ricavato dalla nuova politica economica. Il golpe fallisce, ma i partiti si ritirano sempre più dalla scena. Sotto pressione dell’esercito e della marina le spese per il riarmo accelerano.

L’inflazione, molto contenuta sotto Takahashi, diventa iperinflazione. È l’ennesima prova del fatto che le politiche di reflazione, corrette quando abbondano le risorse inutilizzate, diventano pericolose quando chi ha il potere si ingolosisce (e accade quasi sempre) e forza la crescita oltre i limiti del sistema.

Alle politiche di Takahashi si ispira da settembre Shinzo Abe, cultore di storia e nazionalista acceso. Abe vuole un’economia forte perché vuole un esercito forte, ma ha imparato a dire queste cose sottovoce dopo che nel 2007 è stato estromesso dal potere per avere provocato eccessive tensioni con la Cina.

I mercati, nel valutare l’Abenomics, fanno finta di non vedere questo aspetto, che però esiste ed è uno dei punti deboli del grande programma di rilancio. Sia chiaro, anche l’élite cinese ha promosso dal 1978 la crescita con un occhio e forse due al rafforzamento militare del paese. L’Asia orientale, a differenza dell’Europa, non ha rimosso le ferite profonde del Novecento. In compenso non è azzardato dire che chi rilancia l’economia con finalità nazionalistiche di solito fa molto sul serio.

Come Takahashi, Abe si trova alle prese con un’economia globale fragile e con un Giappone immerso nella deflazione e profondamente indebolito da un terremoto, che obbligando alla riconversione dal nucleare al petrolio ha mandato la bilancia commerciale (uno dei punti di forza rimasti) dal nero al rosso.

La svalutazione dello yen, avviata verso il 40 per cento, sta seguendo quasi con il pantografo quella del 1932 (che però, in overshooting, arrivò per qualche tempo fino al 60). La politica monetaria non può essere identica nella forma, dal momento che i tassi sono già a zero (l’espansione della base monetaria, in compenso, sarà più aggressiva), ma sarà simile nello spirito.

Lo spirito è quello di cercare a bella posta di apparire temerari e perfino irresponsabili. Solo in questo modo, si suppone, si possono davvero modificare le aspettative sull’inflazione.

La stessa volontà di dare scandalo è presente nella politica fiscale. Lo scandalo non sta nei numeri (tanto in Takahashi quanto in Abe il disavanzo aggiuntivo è molto meno ampio di quello che si può pensare) ma nell’andare controcorrente e non darsi all’austerità quando lo Zeitgeist è tutto per l’austerità.

Per quanto descritto fin qui Shinzo Abe è portato sugli scudi da tutti i keynesiani americani e gli antimerkeliani europei. A ragion veduta, possiamo ben dire. Quella che gli uni e gli altri fanno però finta di non vedere è la terza freccia dell’Abenomics, quella delle riforme dal lato dell’offerta.

Abe vuole infatti liberare gli spiriti animali dei giapponesi e scuoterli, prima ancora che dal declino, dal torpore. Non è certo la prima volta che un governo appena insediato a Tokyo vara una lenzuolata di buoni propositi ricchi di espressioni poetiche. Programma per un bellissimo Giappone era il nome che il governo precedente aveva scelto per il suo piano. Programma per la pace mentale è il titolo della sezione dedicata alla previdenza nel piano di Abe.

La novità di questo ennesimo piano è la quantità di adrenalina e forse, ancora di più, la sua ottima qualità. Mentre l’Europa si affanna sulla Tobin Tax e sui capital gain da colpire sempre più aggressivamente, Abe detassa per cinque anni gli investimenti finanziari delle famiglie.

Mentre l’Europa addita l’Irlanda alla pubblica vergogna per le sue tasse basse per le imprese, Abe vuole creare zone economiche speciali con poco fisco e poche regole.

Mentre l’Europa cerca di pagare l’energia al prezzo più alto possibile, Abe lavora per il ripristino del nucleare. Mentre l’Europa si fa venire forti mal di pancia quando si parla dell’Iva, l’imposta regressiva, Abe intende aumentare una sola tassa, per l’appunto l’Iva. Mentre l’Europa non ha il coraggio di toccare i grandi serbatoi di consenso per i partiti, come i dipendenti pubblici, Abe vuole liberalizzare i prezzi e l’import dei prodotti agricoli nonostante le campagne siano da sempre il punto di forza del Partito Liberaldemocratico.

Ce la può fare? Sì, se mantiene la velocità che ha tenuto finora. Il Giappone è da vent’anni additato come un paese in decadenza inarrestabile, avviato alla bancarotta finanziaria e all’estinzione demografica. C’è del vero, naturalmente, ma c’è anche molta esagerazione. Il Giappone è patrimonialmente molto meno ricco rispetto alla fine degli anni Ottanta. La borsa vale meno della metà e l’immobiliare ancora meno rispetto ai livelli folli di allora. Il cambio reale, tuttavia, ha tenuto e il reddito procapite è salito più o meno come quello americano. La disoccupazione è sempre stata inferiore a quella europea e non di poco. Negli ultimi anni, poi, il Giappone è diventato una destinazione ambita per i capitali privati cinesi e taiwanesi in cerca di stabilità politica e di tranquillità. La ripresa dell’immobiliare, partita molto prima dell’arrivo di Abe, è dovuta proprio a questo.

Il debito pubblico giapponese, al 245 per cento per fine 2013, è meno inguardabile se ne togliamo (come si fa abitualmente per quello americano) la parte collocata presso enti pubblici, inclusa la banca centrale. Con questo criterio scende al 145 per cento. Se poi al debito togliamo il trilione abbondante di riserve valutarie scendiamo al di sotto dei livelli italiani.

Il disavanzo annuale è vicino al 10 per cento del Pil, ma il Giappone parte dalla felice condizione di entrate fiscali pari al solo 30 per cento del Pil, contro il 50 di Italia e Francia. Con 10 punti di pressione fiscale in più (parecchi di meno se riprende a crescere) arriverebbe al pareggio rimanendo fiscalmente competitivo rispetto a noi. Il Giappone invecchia, si dice. È vero, ma è solo in anticipo rispetto alla Cina, tanto per fare un esempio, destinata fra due decenni a un profilo demografico perfino peggiore rispetto al Giappone attuale (né Cina né Giappone intendono aprirsi all’immigrazione, ma se qualcuno lo farà per primo, sarà il Giappone).

Quanto ai costi per la previdenza, secondo l’Ocse il Giappone, tra i paesi industrializzati, è quello dove, al momento attuale, ci si ritira dal lavoro più tardi (69.7 anni contro i 62.3 della Grecia, i 61.5 della Spagna, i 60.7 dell’Italia e i 58.7 della Francia, tutti dati effettivi, non teorici). In Giappone, poi, la pensione corrisponde al 35 per cento dell’ultimo stipendio (anche qui dati effettivi), contro il 95 greco, l’81 spagnolo, il 68 italiano e il 43 tedesco.

La borsa di Tokyo, dopo la galoppata di questi mesi e la correzione degli ultimi giorni, quota 14 volte gli utili 2013, praticamente raddoppiati rispetto a quelli dell’anno scorso. Se l’Abenomics riuscirà anche solo per metà, gli utili del 2015 e 2016 saranno in crescita ulteriore e i multipli potranno lievitare ancora. Il punto debole dell’Abenomics, finora, è stato l’aumento dei tassi richiesti dal mercato per comprare i titoli pubblici. Sempre fino a questo momento, tuttavia, tale aumento è stato molto inferiore alla crescita programmata per l’inflazione. I rendimenti reali, quindi, sono scesi. Esattamente il contrario di quello che sta succedendo sui Treasury americani decennali, che aumentano di rendimento nominale mentre scende l’inflazione, con un doppio aumento dei tassi reali.

Inutile dire che conviene a tutti che l’esperimento di Abe abbia successo. Un esito positivo, oltre a fare ancora salire tutte le borse del mondo, metterà una forte pressione sull’Europa in senso reflattivo e riformista.

Venendo ai mercati, le vicende dei bond giapponesi e americani hanno offerto alle borse il pretesto per un arresto dell’impetuoso rialzo iniziato in settembre. Si è aperta una fase laterale, molto interessante per il trading. Questa fase potrà durare ancora qualche settimana. Correzioni più profonde saranno da considerare occasioni di acquisto, perché il rialzo azionario, guardando al 2014 e al 2015, non è finito.

Visti dall’azionario, i bond non sono da considerare una minaccia esistenziale. Nel luglio scorso i decennali americani rendevano l’1.40, oggi rendono il 2.15. Questo non ha impedito all’SP 500 di salire del 18 per cento nello stesso periodo. Visti dai bond, i bond non devono creare preoccupazione eccessiva, ma una riconsiderazione strategica del portafoglio obbligazionario è obbligatoria per tutti. Chi non ha Treasury decennali non si è praticamente ancora accorto dell’inversione di tendenza. Chi ha corporate potrà continuare a godere di una riduzione degli spread nei prossimi mesi. A un certo punto, tuttavia, si fermeranno anche i corporate. Il suggerimento, per il momento, è quello di essere molto larghi di manica sulla qualità della carta che si compra, ma in compenso sempre più attenti sulla durata, da portare entro la fine di quest’anno entro i quattro-cinque anni.

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR. ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.