di Vincenzo Musacchio Giurista e docente di diritto penale in varie Università italiane ed estere Docente presso l'Alta Scuola di Formazione della Presidenza del Consiglio in Roma (2012-2013) Presidente dell'Istituto Nazionale di Studi e Ricerche sulla Corruzione in Roma Direttore Scientifico della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise Editorialista de "L'Ora" di Palermo e della Gazzetta del Sud

Salviamo le persone non le banche

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“Save people not banks” è il motto più utilizzato dai movimenti anti-austerity nati in tutto il mondo negli ultimi anni e, a mio giudizio, esprime a fondo la pretesa dei cittadini ad ottenere “giustizia sociale” e contrastare il più grande impoverimento collettivo che il capitalismo abbia compiuto nel corso della storia. Non sono un economista e non voglio invadere campi non miei, ma, parlando delle ultime vicende bancarie che hanno toccato il nostro Paese, non si può leggere il “decreto salva-banche”, varato recentemente dal Consiglio dei Ministri, sganciato da queste analisi preliminari.

Il meccanismo contenuto nel provvedimento del Governo sembra ripercorrere le linee generali che hanno dettato i principali salvataggi di banche riattualizzando il principio di “socializzazione delle perdite”. Nel caso specifico però emergono elementi che gettano alcune ombre sul decreto. Non si può non evidenziare che vi sono tantissime denunce fatte da tanti risparmiatori, alcuni si sono tolti persino la vita, di essere stati costretti a comprare obbligazioni ad altissimo livello di rischio. Assurdamente (questa è la mia opinione ovviamente) si è sostenuto che queste persone abbiano firmato contratti regolari. Voglio solo precisare per onestà intellettuale e morale che stiamo parlando di gente comune e non di esperti o di finanzieri.

Questa gente va tutelata. Nel nostro sistema giuridico quando un’impresa va a gambe all’aria, fallisce e non ci sono scuse che reggono. Chissà perché le banche non possono fallire. Se presenti al cliente carte false o indecifrabili costui è vittima e non correo, è un truffato, diciamo noi giuristi. Purtroppo in questo nostro Paese chi possiede e maneggia ingenti quantità di denaro può fare tutto, evitando non di rado le sanzioni dell’ordinamento.

In America dopo la bancarotta fraudolenta nel caso Enron, il Congresso aprì una commissione d’inchiesta (negli Stati Uniti le commissioni di inchiesta sono una cosa seria) e gli amministratori vennero rinviati a giudizio e condannati a pene detentive comprese tra i diciotto mesi e i ventiquattro anni.

Jeff Skilling, amministratore delegato e “responsabile” della colossale truffa finanziaria venne condannato a ventiquattro anni di reclusione, successivamente parzialmente ridotti, mentre Ken Lay, presidente ed amministratore delegato a seguito delle dimissioni di Skilling, morì d’infarto prima della condanna. Gli altri responsabili che collaborarono con la giustizia non riuscirono ad evitare pene comunque severe (fino a dieci anni di reclusione).

In Italia, l’assurdo è che, una volta restituito il maltolto, il cliente è persino riconoscente al direttore di banca anche se sa che presto si potrebbe ritrovare costretto a pagare nuovamente di tasca propria le prossime perdite bancarie.