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Usa: Nicaragua, tornano i sandinisti

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La probabile elezione a presidente del Nicaragua di Daniel Ortega, leader dei sandinisti e già “nemico pubblico numero uno” negli anni Ottanta, potrebbe accentuare le latenti tensioni tra l’amministrazione Bush e l’America Latina. Sulla base dei dati per ora disponibili, Ortega avrebbe ottenuto tra il 38 e il 41 per cento dei suffragi, sufficienti per evitare un ballottaggio. Il governo di Washington non ha nascosto la sua opposizione al leader sandinista e pare non intenda riconoscere il risultato elettorale. A gongolare, invece, Hugo Chavez, il presidente venezuelano che ha promesso aiuto al piccolo paese centroamericano. Entro dicembre anche il Venezuela dovrà eleggere un nuovo presidente e una vittoria di Chavez appare più che probabile. Prossimo anche il ballottaggio in Ecuador, dove il candidato presidenziale pro Chavez potrebbero vincere al secondo turno. La vittoria di Ignacio Lula in Brasile e quella di qualche mese fa di Micelle Bachelet nel Cile hanno da un lato rafforzato quella che si potrebbe definire l’ala moderata della sinistra latinoamericana, abbastanza ostile verso Chavez ma pur sempre favorevole a una maggiore autonomia nei confronti degli Usa e del Fondo Monetario, visto come la lunga mano del controllo americano. In Perù e Colombia la vittoria alle presidenziali è andata a candidati moderati. Ufficialmente anche in Messico, dove tuttavia le tensioni sociali e politiche stanno diventando altissime e dove il candidato di centrodestra alle presidenziali è risultato vittorioso per un esiguo margine e non controlla il Congresso. In caso di sconfitta elettorale dei repubblicani alle elezioni di mid-term del 7 novembre prossimo sarebbe forse possibile consolidare i rapporti tra le varie anime progressiste latinoamericane e il partito democratico nord-americano e forse evitare una latente e pericolosa contrapposizione tra i due emisferi. Questi movimenti in America del Sud, inevitabilmente, avranno importanti ripercussioni economiche. In primo luogo si dovrebbe accelerare il processo di de-dollarizzazione delle economie sudamericane che tendono a dipendere sempre meno dal sistema finanziario degli Stati Uniti. Per quanto riguarda il petrolio, non sono a rischio le esportazioni di greggio dalla Colombia né per ora quelle dal Messico, dove comunque la situazione potrebbe evolvere in termini poco favorevoli agli Usa. In Ecuador, è stata sufficiente il timore dell’elezione di un candidato nazionalista-populista filo-Chavez a indurre le società petrolifere ad accettare modifiche nei contratti, in linea con i desiderata del governo che vedrà così aumentare considerevolmente i propri introiti nel 2007. Lo stesso si può dire per la Bolivia, dove il governo di Evo Morales ha ottenuto una significativa revisione -a favore del paese andino – degli accordi con la Petrobras e la RepsolYPF per le esportazioni di gas naturale e l’avvio di nuove ricerche nel sud del paese.