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“Ubs è pronta a comprare in Italia”

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ROMA (WSI) – Sull’Italia investiamo e investiremo in modo importante. Oggi abbiamo una quota di mercato del private banking nazionale sotto il 5% e intendiamo arrivare a raddoppiarla. Siamo anche attenti a eventuali possibilità di acquisizione, a patto che si tratti di realtà di un certo peso, che abbiano in gestione alcuni miliardi di euro».

Se c’è un industria che in Italia pare non andare mai in crisi è quella dei patrimoni familiari e aziendali di dimensioni medio-grandi. E non a caso Fabio Innocenzi, da due anni amministratore delegato di Ubs in Italia dopo una lunga carriere nei maggiori gruppi creditizi nazionali, pensa che per il gruppo svizzero ci siano grandi possibilità anche a queste latitudini.

L’Italia, però, resta un mercato dove molti operatori sono restii ad investire. E anche se il governo sta lavorando per renderla più attraente, sbarcare qui in forze resta spesso una scommessa…

«Certo ci sono elementi negativi, che peraltro esistevano anche quando nel 2011, al picco della crisi, Ubs ha deciso di scommettere sull’Italia. Sono quelli che tutti conosciamo, dall’incertezza normativa e i tempi lunghi della giustizia al livello di tassazione delle imprese, dalle inefficienze del mercato del lavoro alla crescita economica che langue. Ma in generale direi che il settore bancario ha qualche svantaggio in meno, anche perché gran parte della regolazione cui è sottoposto dipende ormai dalle autorità europee. E poi, di fronte a questo quadro con alcune difficoltà, ci sono elementi che per noi hanno grande interesse.

Quali in particolare?

«Il primo è il fatto che l’Italia era e resterà un paese di debito pubblico ma di ricchezza privata. L’alta propensione al risparmio delle famiglie – che mantengono invece una forte diffidenza verso il debito – e l’esistenza di molti risparmiatori facoltosi rendono il mercato molto attraente per chi, come noi, si occupa in modo industriale di gestione del risparmio. E poi il panorama dei concorrenti ci è favorevole. I grandi gruppi bancari italiani non sono specializzati nella gestione del risparmio. I colossi americani forse tenuti indietro da gli aspetti negativi dell’Italia di cui parlavamo prima, hanno deciso di essere qui con strutture leggere. E altri grandi gruppi internazionali sono banche universali e non hanno, come noi, strutture ampie e dedicate solo al private banking. Insomma, questo è un mercato grande dove non ci sono grandi concorrenti. E sebbene la nostra quota di mercato nel private banking sia in termini relativi piccola – tra il 2 e il 5% – siamo di gran lunga i primi tra gli operatori internazionali in Italia. Infine c’è un aspetto di prossimità, visto che Italia e Germania sono i Paesi con patrimoni importanti che sono più vicini alla Svizzera, è normale che Ubs investa qui».

In concreto come contate di crescere?

«Se prendiamo un singolo soggetto con un patrimonio importante, superiore al milione di euro, come quelli a cui ci rivolgiamo, il servizio deve essere del tutto mirato alle sue esigenze. I grandi patrimoni devono avere una diversificazione in tutto il mondo e spesso ai nostri clienti servono servizi di consulenza successoria e familiare che sono importanti quanto la gestione del risparmio vera e propria. Quando si ha un imprenditore con una media azienda e un patrimonio accumulato negli anni, molto spesso bisogna sia dargli la consulenza su come investire il proprio denaro sia consigliargli come gestire la parte non ordinaria della propria azienda per valorizzarla al massimo. A un cliente con un patrimonio di 2 o 3 milioni e nessuna esigenza di azienda o di sistemazione di questioni familiari si dà invece consulenza, anche se non si tratta di una consulenza tradizionale: fino a pochi anni fa era un mercato fatto sostanzialmente di consigli; oggi è mercato regolamentato dove si offre un servizio continuativo di creazione e manutenzione di un portafoglio. Anche per questo, come Ubs, in Italia abbiamo deciso di concentrarci – unica banca – solo sulla consulenza e sulla gestione discrezionale del risparmio e non sulla gestione degli ordini. Abbiamo lanciato anche in Italia, il Gfo, cioè il “Global family office” che abbiamo già a Londra e a Zurigo, un servizio mirato ai tanti italiani che ormai abbondano; presto arriveranno anche i mutui. E poi ci sono anche possibilità di acquisizione di società che si occupano di private banking a patto che abbiano in gestione alcuni miliardi di euro. Sotto quella soglia, vista la complessità di operazioni di acquisizione e fusione, non ha senso».

Ma la gestione del risparmio, e i suoi costi per il cliente, si scontrano anche con un accesso alle informazioni sempre maggiore e con strumenti che costano davvero poco. Insomma, l’età di Internet non vi minaccia?

«Proprio il fortissimo utilizzo dell’informazione, che oggi è disponibile per tutti, porta in realtà a una formidabile concentrazione del rischio. È normale, infatti, che si sia attratti da quegli investimenti che ci appaiono più interessanti, mentre è molto difficile per il singolo risparmiatore mettere a punto quell’elemento chiave per il proprio portafoglio di investimenti che è la diversificazione. Nulla è più noioso che fare la manutenzione continua e la diversificazione dei propri investimenti ed è per questo che la consulenza professionale diventa necessaria».

Gli italiani restano fedeli all’immagine di risparmiatori attenti e avversi al rischio o stanno cambiando?

«Se ad esempio faccio il paragone con i nostri clienti asiatici le differenze si notano. Là diventa ricco chi sta accumulando e ha 45-50 anni, qui nella maggior parte dei casi si tratta di ricchezza detenuta da chi non la accumula più e ha 60-70 anni, È ovvio che ci sia anche una diversa propensione al rischio: chi sta ancora accumulando è, semplificando, più propenso all’investimento in azioni; chi ha già accumulato cerca rendite prive di rischio. Ad esempio molti nostri clienti che sono imprenditori, specie nel Nord Est, ragionano in questo modo: “Io rischio già in azienda e quello che investo fuori dall’azienda deve essere privo di rischio. È molto interessante riflettere con loro e aiutarli a capire che la diversificazione che funziona non è quella che ha gli investimenti finanziari a rischio zero, ma quella che offre una correlazione negativa e non positiva rispetto al loro rischio imprenditoriale di base. Del resto anche in questi ultimi mesi abbiamo capito che nulla è più pericoloso che pensare che esistano luoghi e strumenti finanziari immuni dal rischio, fossero pure titoli di Stato americani».

In una fase di tassi bassi come quella che viviamo il vostro lavoro è più facile o più difficile?

«Molto più facile. Perché il mestiere di consulente professionale del risparmio funziona e dà i suoi risultati quando il cliente non ha davanti due scorciatoie come i tassi alti, che offrono ottimi rendimenti comunque, e una fase di euforia dei mercati che spinge tutto verso l’alto. Gli ultimi anni, comunque, nonostante i tassi in calo e le difficoltà delle economie reali in Europa, sono stati particolarmente positivi per gli investimenti finanziari: sia nel 2012 sia nel 2013 la media dei nostri portafogli gestiti ha visto una crescita superiore al 10%».

E il prossimo anno?

«Il 2014 sarà ancora un anno più di azioni che non di obbligazioni. Sarà più orientato sui Paesi sviluppati che non sui mercati emergenti. E non sarà ancora un anno in cui puntare sul breve termine perché i tassi sono destinati a rimanere bassi».

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da La Stampa – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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