Un libro che costituisca la summa del movimento che domanda maggiore pluralismo nell’insegnamento dell’economia: è questa la prima ambizione di “Econocracy: i pericoli di lasciare l’economia agli esperti”. A firmare questo libro sono tre fra i maggiori animatori del movimento studentesco internazionale di Rethinking Economics, un network che, dopo l’esperienza degli anni crisi finanziaria invoca un insegnamento più “critico” della scienza economica.
Gli argomenti di Joe Earle, Cahal Moran e Zach Ward-Perkins prendono avvio da quello che è un dato di fatto: i corsi di laurea in economia non richiedono quasi alcuno sforzo critico. Per gli studenti è sufficiente assimilare i modelli impartiti dai loro insegnanti. Gli autori sono andati ad analizzare 174 moduli di economia da sette università del Russell Group pervenendo alla conclusione che i corsi non richiedono quasi mai di valutare i modelli economici che trasmettono, ma solo di spiegarli od applicarli.
Solo l’8% dei voti vengono assegnati sulla base di una valutazione critica o di un pensiero indipendente.
Il problema di fondo riconosciuto dagli autori è che oggi si vede l’economia “come un sistema distinto che segue una particolare logica spesso meccanica” e ritiene che questa “possa essere gestita utilizzando un criterio scientifico”.
“Viviamo in una nazione divisa tra una minoranza che sente proprio il linguaggio dell’economia e una maggioranza dall’altra parte”, scrivono gli autori.
Rethinking economics è ora una realtà presente nelle università di 15 Paesi, fra cui l’Italia. La strada da compiere è ancora lunga per raggiungere l’obiettivo che l’organizzazione si pone: l’insegnamento dell’economia è tutt’altro che riformato, ma, commenta Il Guardian, la legittimazione popolare non sembra più dalla parte degli economisti tradizionali. Questi ultimi, infatti, “hanno mandato il messaggio agli scettici che la loro scienza non è riformabile”, scrive il quotidiano britannico.