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Renzi: “sono pronto per la segreteria del Pd”

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ROMA (WSI) – Matteo Renzi fatica a camminare tra la stazione e la metropolitana di Brescia, tutti tentano di fermarlo, qualcuno ha scritto a mano su foglietti di carta: «Renzi segretario».

«È così dappertutto. Sono stato in posti dove non è andato nessuno: prima in Friuli per la Serracchiani, poi a Treviso, Vicenza, San Donà di Piave, Villafranca. Visti i risultati dei nostri candidati sindaci, mi sono convinto che il Pd può vincere ovunque, anche in Veneto, anche qui in Lombardia. La nostra gente ci chiede soprattutto questo: stavolta fateci vincere davvero. Perché noi non abbiamo mai davvero vinto: nel ’96 facemmo la desistenza che provocò poi la caduta di Prodi; nel 2006 arrivammo primi con 24 mila voti mettendo insieme Turigliatto e Mastella, Luxuria e Lamberto Dini; stavolta abbiamo mancato un gol a porta vuota. Noi dobbiamo dare una risposta alla nostra gente, agli emiliani che sono stati i primi a dire no a Marini, ai bersaniani che in queste ore mi chiedono: Matteo ora basta, ci stai o no?».

Appunto: ci sta o no? Si candiderà alle primarie per la segreteria del Pd?

«Dipende dal Pd, non da me. Se riusciamo a uscire dalla palude, a imporre i nostri temi, la nostra gente capirà il governo con il Pdl. Se tiriamo a campare, se ci facciamo dettare l’agenda da Berlusconi, se non riusciamo a fare le riforme, allora…».

Le pare che le riforme siano partite bene?

«La prima cosa dovrebbe essere la legge elettorale. Invece vedo che la si vuol mettere per ultima. È sbagliato. È l’idea che “il problema è ben un altro” che porta a non far niente. Se non si trova un accordo sul sistema elettorale, mi pare difficile che lo si trovi su tutta la riforma dello Stato».

La vedo scettico.

«Sento che si parla di saggi, di commissioni. Ma non occorre un saggio per dire ad esempio che la burocrazia italiana è da rifare; te lo dice anche uno scemo. Quando la politica non vuole risolvere le cose, fa una commissione. Invece bisognerebbe chiudersi in una stanza e decidere».

Quindi lei è a un passo dalla candidatura.

«Io mi sono stancato di passare per il monello in cerca di un posto, il ragazzo tarantolato con la passione del potere. Sono l’unico che non si è seduto su nessuna poltrona ed è rimasto dov’era prima. Se c’è bisogno di me, me lo diranno i sindaci, i militanti. Persone che stimo molto, mi consigliavano di non farlo; ora però si vanno convincendo anche loro. Di sicuro, se succede, non sarà come l’altra volta una campagna improvvisata, per quanto bella. C’è bisogno di una squadra ben definita».

A quali nomi pensa?

«I migliori in ogni campo: energia, scuola, innovazione tecnologica. Di solito ai politici interessa il loro futuro personale. Io non ho ancora le idee chiare sul mio futuro, ma le ho chiarissime sul Pd e sull’Italia. Noi tra dieci anni possiamo essere la locomotiva d’Europa. Ma dobbiamo cambiare. Dobbiamo aiutare gli imprenditori invece di ostacolarli. Dobbiamo abbassare il costo dell’energia. Dobbiamo avere il coraggio di dire al Sulcis che non ha senso andare avanti con il carbone di Mussolini pagato dallo Stato».

Perché non può farle il governo Letta queste cose?

«Io spero che Letta abbia successo. Lo stimo, abbiamo un bel rapporto. Apprezzo il suo equilibrio; mi convincerà meno se cercherà l’equilibrismo. Non so fino a quando potremo governare con Schifani e Brunetta, i loro capigruppo. Il governo dura se fa le cose. È come andare in bicicletta: se non pedali, cadi. Io posso anche uscire a cena con gente che non sopporto, ma solo se il cibo è buono, la conversazione decolla e dopo si va a vedere un bel film. Se invece si resta in silenzio, meglio alzarsi e andarsene».

A leggere il suo libro, sembra quasi che le abbiano fatto intravedere Palazzo Chigi mentre c’era già un accordo alle sue spalle…

«Non credo sia così. La verità è che non era il mio turno. A Palazzo Chigi io andrei per smontare tutto e ricostruire daccapo: il fisco, la burocrazia. Per fare questo occorre un mandato forte. Letta dice che ci vuole il cacciavite. Io userei il trapano».

Non crede che se lei fosse eletto segretario il governo rischierebbe di cadere in pochi mesi, come Prodi quando divenne segretario Veltroni?

«Il rischio c’è. Anche più grave di quello del 2007: allora c’era un governo di centrosinistra, questo è un governo che vede sinistra e destra insieme. Ma sarebbe ancora peggio vivacchiare senza risolvere nulla, perdere un altro giro».

Dovrà scegliere tra segretario del Pd e sindaco di Firenze?

«Il problema non si pone, almeno non si pone adesso. Non c’è incompatibilità. Avere una funzione nazionale sinora ha aiutato a fare meglio il sindaco, ad esempio a trovare i fondi per salvare il Maggio fiorentino. Ora poi l’Europa finanzierà direttamente i Comuni e non solo le Regioni. Con la riforma del titolo V della Costituzione abbiamo fatto un grosso errore: alla burocrazia statale si è aggiunta la burocrazia regionale».

Berlusconi chiede il presidenzialismo, lei frena. Ma non era presidenzialista pure lei?

«Non ho in mente una soluzione piuttosto di un’altra. Si può pensare all’elezione diretta del premier, che rafforza il governo, o del presidente della Repubblica, che però a questo punto non potrebbe più essere una figura di garanzia, dovrebbe essere un capo. L’importante è che ci sia qualcuno che si assuma la responsabilità, a cui dire grazie se ha successo o dare la colpa se fallisce».

Ma lei si vedrebbe al Quirinale?

«Le ho già detto che la mia preoccupazione non è il mio futuro politico. Ho 38 anni. Sa quali sono le due cose che mi danno più fastidio?».

Dica.

«La prima è quando mi descrivono roso dall’invidia, come se il mio treno fosse passato. Quando attribuiscono a me trame contro Letta, tipo la mozione di Giachetti per il ritorno ai collegi uninominali. Ora, se c’è uno che ha diritto di parlare di legge elettorale è Giachetti, ha fatto pure lo sciopero della fame, io non lo farei neppure se mi pagassero, ma rispetto le battaglie dei radicali. Nel merito sono d’accordo con lui; ma non ne sapevo nulla. Paradossalmente, sono proprio gli ex democristiani a dipingermi come un piantagrane. Tentano di logorarmi».

E la seconda?

«Quando mi dicono che non sono di sinistra. A me, il primo sindaco ad aver fatto un piano a volumi zero che ferma la cementificazione, con l’obbligo di aprire un giardino a dieci minuti di passeggiata da ogni casa, con le chiavi affidate alle mamme. Ora ho pedonalizzato un’altra parte del centro, dietro Palazzo Vecchio. Ma di questo non parla nessuno. Si parla solo del pranzo con Briatore».

Anche lei, però…

«Mi hanno dipinto come un’olgettina perché sono andato ad Arcore da Berlusconi, e ora con Berlusconi hanno fatto un governo. Mi hanno attaccato perché sono andato dalla De Filippi; dopo di me sono andati don Ciotti e Gino Strada e nessuno ha detto niente. Mi prendono in giro per il giubbotto di pelle, e non sanno che la pelletteria è un settore che tira, in dieci anni ha raddoppiato l’export. Ora mi attaccano perché ho incontrato Briatore. Io non la penso come lui. L’imprenditore cuneese con cui sono più in sintonia è Oscar Farinetti. Però sono curioso. Non voglio chiudermi nel mio steccato. Penso di poter imparare qualcosa da qualsiasi persona; a maggior ragione se è diversa da me, se ha avuto successo in quello che ha fatto, nello sport e nel lusso, se crea posti di lavoro».

Con il Billionaire?

«Non vado al Billionaire, non ho il fisico. Ma questo moralismo senza morale lo trovo insopportabile, questa saccenteria, questa pretesa di superiorità etica è la maledizione della sinistra. Per me la politica è una prateria, non una riserva indiana. Tra poco faccio il comizio. Sa qual è il passaggio su cui prenderò più applausi? Quando dirò che bisogna andare a cercare i voti della destra. Berlusconi vinse nel ’94 con il milione di posti di lavoro e il nuovo miracolo italiano, nel 2001 con “meno tasse per tutti”, e noi ironizzammo su questo. Fu un errore. Il Paese ha bisogno di speranza, sogni, fiducia. Berlusconi ha illuso gli italiani. Poi è seguita la disillusione. Ora è il tempo delle decisioni».

Lei ha preso l’abitudine di vedere pure D’Alema.

«Ma quale abitudine! Solo perché adesso ci parliamo… Ammiro il suo humour. Alla direzione Pd è andato da Matteo Orfini e gli ha detto: “Vedo che finalmente ci sono giovani turchi che fanno qualcosa di interessante. Peccato che siano a Istanbul».

Con D’Alema avete un patto?

«No. Con D’Alema è interessante discutere. Come con Veltroni. Io non rinnego la battaglia per la rottamazione. La rifarei; anche se rinunciare a D’Alema e tenersi Fioroni non è stato un affare. Però un partito ha bisogno di molte intelligenze e voglio ripartire dalle giovani leve, anche chi ha votato per Bersani. Voglio un partito vivo, in cui vengo fatto fuori e faccio fuori, ma in modo aperto, trasparente. Non chiedo fedeltà. Chiedo lealtà».

Non ha paura, da segretario di partito, di non avere più l’appeal sull’opinione pubblica che ha ora? Di non essere più Renzi?

«Io funziono solo se sono Renzi. Non sarò mai la copia di un funzionario di partito. La questione è un’altra: rimettere l’Italia in gioco, recuperare un pensiero lungo, passare dal Paese del piagnisteo al Paese dell’opportunità».
Il decreto sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti la convince?
«Ho fatto voto di non parlare male del governo; quindi taccio».

Non può cavarsela così.

«Mi pare la logica dell'”adelante con juicio”. Si poteva avere più coraggio. Spero che il Parlamento lo migliori. E che venga abolito il Senato, trasformandolo in camera delle autonomie: 315 parlamentari in meno significano meno costi e più efficienza. Ma l’importante oggi non è dire; è fare. Subito. Non le sembra che a Roma abbiano già perso troppo tempo?».

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Corriere della Sera – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

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