Società

POLITICA: L’ OMBRA LUNGA DEL GOVERNATORE

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(WSI) – Nel generale processo di autodistruzione della maggioranza, e nel rituale processo di avvelenamento dei pozzi dell´opposizione, non poteva mancare il fantasma del «governo del governatore». Da ieri il Palazzo romano è scosso dall´ennesima voce: cade Prodi, vittima dello sfarinamento dell´Unione e della compravendita di senatori compiuta dal Cavaliere. E al suo posto arriva Mario Draghi, capo di un esecutivo «tecnico» che salva la finanza pubblica ed evita l´esercizio provvisorio. E´ un pessimo segnale per il Paese, se ancora una volta c´è chi pensa alla Banca d´Italia come riserva della Repubblica.

«Frullato» nel tritacarne della politica anche il governatore, parafrasando la celebre risposta che Gianni Agnelli diede a Scalfaro nel ‘92, poi «non resta che un generale, o un cardinale». Ma pur con tutta l´ovvia apprensione per l´attuale stato della salute pubblica, l´Italia di oggi non è quella di quindici anni fa. Soprattutto perché oggi, se c´è una vera emergenza, è quella istituzionale, e non quella economica.
Nel ‘92 il Paese era alla bancarotta finanziaria, mentre oggi rischia semmai il collasso politico.

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Sono bastati due indizi, a innescare l´indiscrezione. Il presidente della Repubblica che a sorpresa si lascia andare a un elogio pubblico della Banca d´Italia e dell´uomo che la rappresenta, di cui apprezza «l´equilibrio» e al cui giudizio tiene molto. E poi qualche plenipotenziario di Forza Italia, che riferisce di un´improvvisa preoccupazione berlusconiana su una possibile discesa in campo di Draghi per evitare le elezioni, dopo quella che viene ormai considerata come «l´inevitabile crisi del governo Prodi». Ma se due indizi fanno un´indiscrezione, non bastano a fare una prova.

Il governatore, chiuso nel suo albergo a Washington per il G7, non commenta ovviamente le voci. I suoi rapporti con la politica sono sempre stati pressochè inesistenti, anche se più d´uno, nel centrosinistra che vinse le elezioni un anno e mezzo fa, avrebbe visto bene una staffetta: lui al Tesoro, e Padoa-Schioppa in Banca d´Italia. Ma è acqua passata. Oggi Draghi si limita a esprimere una legittima «lusinga» per i giudizi che su di lui ha espresso la più alta carica repubblicana, e che fanno in qualche modo giustizia delle critiche che invece gli sono state mosse in queste ultime settimane da qualche uomo di governo. Ma questo, opportunamente, è tutto. La Banca d´Italia è a sua volta un´istituzione troppo prestigiosa e troppo importante, per poter essere trascinata nelle alchimie velenose del Palazzo. Lo sforzo dei politici dovrebbe essere quello di tenerla al riparo, invece di chiamarla impropriamente in causa, ogni volta che non sanno come uscire dal vicolo cieco.

Nel centrodestra l´ipotesi Draghi non ha sponsor, e come sospetta il premier l´inner circle berlusconiano l´ha messa in giro «solo per aggiungere confusione a confusione». Il nome del governatore viene agitato solo come uno spettro, un possibile espediente di una maggioranza disperata che sarebbe pronta a giocare tutte le sue carte pur di non tornare alle urne. Un bersaglio che, proprio per questo, serve al Cavaliere a serrare i ranghi dell´alleanza, sulla linea della spallata e delle elezioni anticipate. Giulio Tremonti non ha dubbi: «La pista Draghi non porta da nessuna parte. Quale maggioranza lo voterebbe? Noi siamo contrari, perché per noi non c´è alternativa al voto anticipato. Ma poi ce lo vedete Bertinotti e la sinistra radicale che perdono Prodi e votano la fiducia a Draghi? Siamo seri. Se cade il governo ci sono le elezioni e basta. Il ‘92 non si ripete, e l´Italia di oggi non è l´Argentina».

Può darsi che invece una qualche sponda ci sia nell´Udc di Casini, che da figliol prodigo scontento si sta giocando le ultimissime carte neo-centriste (dopo quella inutilmente tentata su Montezemolo) per tentare di sfuggire all´inevitabile ritorno nella casa del padre, cioè la Cdl. Ma anche quella sponda sembra molto, troppo debole per reggere il peso di una vera e propria candidatura.
Nel centrosinistra l´ipotesi Draghi viene considerata del tutto accademica.
Piero Fassino parte da un presupposto: «Per noi non ci sono subordinate a questo governo. La nostra sfida è rafforzare Prodi. A maggior ragione di fronte a questa vergognosa offensiva di Berlusconi, che sperando nella profezia che si autoavvera alimenta uno stato di pre-crisi». Il nome di Draghi, tra i leader del Pd, non risulta in circolazione. «Certo – aggiunge ancora Fassino – se uno immagina un governo `tecnico´, il miglior tecnico in circolazione forse è proprio Draghi. Ma insisto, noi non scommettiamo sulla crisi, noi scommettiamo su Prodi». La stessa cosa la pensa Francesco Rutelli.
E, soprattutto, la stessa cosa continua a ripeterla Walter Veltroni. Anche se, nel nuovo partito democratico, non manca chi non riesce a capire su quale scenario scommetta il nuovo leader incoronato alle primarie. E il dalemiano Nicola Latorre: «Walter non ci ha ancora spiegato bene cosa vede, né sul referendum né in caso di crisi del governo Prodi. Certo, se non si andasse a elezioni e ci fosse un governo tecnico, l´ipotesi Draghi sarebbe per lui sulla carta la migliore: non gli creerebbe problemi di leadership per il `dopo´, come invece successe a noi ai tempi del governo Dini. Ma io, onestamente, non ci credo molto».
Il tempo della supplenza di Via Nazionale, quello che ha reso necessario il ricorso a tecnocrati di assoluto prestigio e di indiscussa «terzietà» come Carlo Azeglio Ciampi (dopo Guido Carli ministro del tesoro dell´ultimo governo Andreotti e prima ancora di Lamberto Dini) è davvero finito. Questo sembra anche il pensiero del presidente della Repubblica. Chi in queste ore ha avuto modo di parlare con Giorgio Napolitano, racconta di un Capo dello Stato stupito della chiave di lettura che qualcuno ha dato alla sua lode al governatore. Non c´era nessun «avviso ai naviganti», nelle parole pronunciate sul Colle. Meno che mai una pre-investitura. E´ ormai noto che se davvero Prodi dovesse cadere, il Quirinale non vedrebbe con favore un ritorno alle urne con questa legge elettorale che – come ripete spesso – «gli stessi che l´hanno varata definiscono una porcata». E lo stesso Napolitano ha fatto sapere ai suoi interlocutori dei due poli che, se si aprisse una crisi, la prima cosa che farebbe durante le consultazioni sul Colle sarebbe quella di ricordare alle delegazioni dei partiti che furono loro stessi a indicargli la priorità delle riforme istituzionali e della legge elettorale, dopo la caduta del primo governo Prodi. Che fine ha fatto quella priorità? Chi si assume la responsabilità politica di dire al Paese che si torna a votare con la legge esistente, che ha reso ingovernabile l´Italia? Prima di sciogliere le Camere, il Capo dello Stato farebbe di tutto, per verificare l´esistenza di una maggioranza per le riforme. Ma una maggioranza del genere (ove mai esistesse) non vedrebbe in Draghi la migliore delle soluzioni possibili, proprio per la natura del suo compito, che sarebbe politico-istituzionale e non economico-finanziario.

Questo è il nodo, dell´Italia di oggi. Le riforme politiche, le riforme istituzionali, la riforma della legge elettorale. Come sostiente Massimo D´Alema, che lo ha detto più volte a Prodi, anche nel viaggio a Lisbona: «Per stare in piedi, noi dobbiamo dare un senso a questa legislatura. Il sistema tedesco è l´unica possibilità che abbiamo, per non regalare Casini al Cavaliere, per tenere legato a noi Mastella e l´area centrista che altrimenti si sfalda, perché non può tornare alle urne in una coalizione con Diliberto e Pecoraro Scanio. Se ci diamo questo obiettivo, allora abbiamo una prospettiva. Ma se non c´è la “mission”, la legislatura muore».

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