Società

PERSIANA:
IPOTESI AIR STRIKE
SULLE CENTRALI

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Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – L’Iran è la priorità numero uno per il governo degli
Stati Uniti. Ora è ufficiale, a confermarlo sono
Condoleezza Rice e Donald Rumsfeld davanti al
Congresso americano. «Il governo di Teheran – ha
detto il segretario di Stato – deve riconoscere che resterà
isolato se continuerà su questa strada». E mentre
prevale la linea dura nella diplomazia internazionale,
con il deferimento al Consiglio di Sicurezza da
parte dell’Aiea, alcuni cominciano a pensare che presto
una soluzione pacifica non sia più l’unica opzione.

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Fonti dell’industria bellica europea rivelano al Riformista
che negli ultimi tre mesi la domanda
di produzione di armi è lievitata «follemente».
Specialmente da Stati Uniti e Gran Bretagna.
La massa di ordini di munizioni e
pezzi di ricambio, ci raccontano, «non è
assolutamente compatibile con una normale
attività di riparazione e mantenimento
» e che rappresenta una «forte crescita
» rispetto agli ultimi anni, che pure
hanno visto Usa e alleati impegnati sul
fronte afgano e in Iraq.

Nelle settimane immediatamente successive alle
esternazioni di Mahmoud Ahmadinejad sulla cancellazione
di Israele dalle cartine geografiche,e sulle ambizioni
nucleari della repubblica iraniana, sui giornali
italiani e internazionali sono abbondati pareri di
esperti e analisti che scongiuravano l’ipotesi di un intervento
militare. L’atomica in mano agli ayatollah
non piace a nessuno, spiegavano, ma di opzione militare
non se ne parla: la possibilità di un’azione aerea
mirata contro le centrali non esiste perché il dislivello
tecnologico non è sufficiente a garantire l’operazione;
e quanto a una vera propria occupazione è ancor
meno fattibile per un paese delle dimensioni dell’Iran.

Ora però i venti di guerra sembrano quanto
meno più vicini. Fonti militari Usa vicine al Congresso
sostengono, tra l’altro, che uno strike aereo sarebbe
«molto più facile di quanto non abbiano detto» e
che pur senza distruggere tutte le centrali,un raid potrebbe
«rimandare la produzione nucleare per anni».
Infatti Teheran ha bisogno di «quasi cento edifici per
arricchire l’uranio e dare forma al metallo», ma «basterebbe
demolirne alcune per porre fine al programma
».Tra gli obiettivi possibili, ci sarebbe anche la “famosa”
centrale di Natanz, «ben protetta», ma la cui
architettura, basata su un progetto della
Luftwaffe del 1939,«non è al passo con la
capacita di penetrazione delle ultime
bombe». Questo non significa che gli Usa
vogliano bombardare a breve l’Iran, ma
solo che, con l’esaurirsi delle opzioni diplomatiche,
si tengono pronti.

«Credo che in realtà la volontà diplomatica
ci sia – racconta Arie M. Kacowic,
docente di relazioni internazionali
presso l’Università ebraica di Gerusalemme –
gli Usa e l’Europa, Italia compresa, sono tutti interessati
a esplorare le soluzioni diplomatiche fino alla
fine, solo che si comincia a credere sempre meno
». Parliamo di scenari. «A partire dal deferimento
da parte dell’Aiea, che già di per sé è una mossa
significativa, la partita si gioca al Consiglio di Sicurezza
– racconta Kacowic – dove l’unico gioco che si
può giocare è quello diplomatico. Non credo che si
arriverà alle sanzioni, perché Cina e Russia si opporranno.
Sembra che l’Iran voglia giocare la partita
diplomatica verso la fine: non mi stupirei se proprio
all’ultimo momento Ahmadinejad cedesse».

Però molti analisti dicono
che più prosegue l’escalation,
più Ahmadinejad è costretto
al rialzo per non perdere la
faccia davanti al mondo islamico.
«Non credo sia tanto
una questione di perderci la
faccia, ma la possibilità che
Teheran non si fermi c’è e
dobbiamo tenerne conto. E
una volta esaurita l’opzione
diplomatica, gli Stati Uniti si
troveranno davanti al dilemma
di trasferire la crisi su un
piano militare, quando la loro
credibilità in Iraq è già in dubbio,
oppure non trasferirla,nonostante
abbiano invaso l’Iraq
dove le armi non sono state
trovate, mentre in Iran le armi
ci sono e sembra anche che ci
sia un secondo programma
parallelo, sulla falsariga della
strategia pachistana».

E Israele?
«Militarmente, Israele è al
di fuori del gioco: l’Iran del
2006 non ha nulla a che vedere
con l’Iraq del 1981 (quando
Israele bombardò il reattore
di Tuwaitha). Gli americani ci
stanno pensando, ma sanno
che non gli conviene finché altre
strade sono aperte. Circa
sei mesi fa una simulazione di
un’invasione iraniana ha dimostrato
che costerebbe almeno
il doppio di quanto finora
è costata la guerra in
Iraq. Condoleezza Rice è la
prima a volere esaurire fino
all’ultimo le opzioni diplomatiche,
solo che a questo punto
non c’è alcuna garanzia».

Ma a proposito di costi,
una terza fonte suggerisce
che il flusso anomalo di richieste
di armi (specialmente
di munizioni guidate) non sia
altro che il risultato del prolungamento
della guerra in
Iraq. O, più precisamente, dell’incapacità
di chi gestisce i sistemi
di resource planning –
programmi computerizzati
analoghi agli e.r.p.(enterprise
resource planning) aziendali,
cui molti eserciti si rifanno
per automatizzare le richieste
di ricambi e rifornimenti
quando le riserve di armamenti
scendono sotto una data
soglia x – di tenere il passo
della richiesta di forniture:
«E’ un problema già registrato
durante la prima guerra del
Golfo. Il fatto è che la soglia x
è troppo bassa, specialmente
per quel che riguarda le munizioni
guidate che vanno per
la maggiore, così può capitare
che ci si trovi costretti a ordinare
troppe armi tutte d’un
colpo». Quindi sarebbe solo
un errore numerico? «No,
vuol dire che le previsioni
erano sbagliate, che si sono
consumate molte più armi di
quanto ci si aspettava». O che
se ne consumeranno.

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