di Luca Lovisolo ll problema del Venezuela e di tanti paesi dell'America Latina rimane sempre lo stesso: liberarsi dal giogo degli Stati Uniti e dai populisti nazionalisti con ideologie datate

Problema Venezuela e America Latina è sempre lo stesso: liberarsi da giogo Usa e da populisti

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A cura di Luca Lovisolo *

Alla cerimonia di rinnovato insediamento di Nicolás Maduro a capo dello Stato, in Venezuela, due settimane fa, non è più andato quasi nessuno: c’erano solo quattro presidenti dell’America latina su diciannove, tutti contigui per ideologia a Maduro e al suo predecessore, Hugo Chávez. Appena due altri Stati latinoamericani hanno inviato emissari, di rango inferiore. C’erano i rappresentanti di Cina, Russia, Corea del nord, Turchia, Bielorussia; insieme a queste e altre anime belle della comunità internazionale, si notava il rappresentante della Chiesa cattolica, sebbene i vescovi venezuelani si siano apertamente schierati contro il regime di Maduro.

Si può immaginare la loro felicità, al vedere l’inviato del Papa a quella pomposa e vuota cerimonia d’insediamento. La sua presenza smentiva gli stessi vescovi cattolici e legittimava nei fatti un presidente che quasi più nessuno al mondo vuol vedere. Per lo scandalo suscitato, il Vaticano si è visto costretto a emettere un imbarazzato e imbarazzante comunicato di spiegazione, il cui tono si può riassumere in poche parole: a noi va bene così, e noi siamo noi, «sapevàtelo.» La Chiesa è «per il dialogo:» se il dialogo non è fatto a schiena dritta e non ha obiettivi, però, si converte nella legittimazione delle peggiori controparti. La presenza dell’emissario vaticano all’insediamento di Maduro ne è la più tragicomica dimostrazione, se ve ne era bisogno.

Ciò che sta accadendo in queste ore a Caracas è l’epilogo di una storia cominciata con un discorso di Hugo Chávez l’otto dicembre 2012. Chávez, allora presidente, stava partendo per Cuba, per un nuovo intervento oncologico. Sapeva che forse non sarebbe tornato. «Se si verificasse il caso, previsto dalla Costituzione, in cui io non sia più in grado di svolgere la funzione di presidente, la mia opinione ferma, piena come la luna piena, irrevocabile, assoluta, totale (‘Mi opinión firme, plena como la luna llena, irrevocable, absoluta, total’), è che […] voi eleggiate Nicolás Maduro presidente.» Così è stato.

Chávez ci aveva visto male: il Venezuela è allo spasmo, non occorre che lo scriva io. Si poteva dissentire dalle idee e dai metodi di Chávez, ma non si può dire che non avesse un’idea di società da costruire, per il suo Paese. Voleva trasformare il Venezuela in uno Stato petrolifero «di rendita,» come i Paesi del Golfo persico. I Paesi petroliferi funzionano diversamente dai nostri: lo Stato vende il petrolio e utilizza le risorse per fornire prestazioni sociali. La popolazione non paga tasse, o quasi. Il Venezuela può permetterselo? Sulla carta sì, ha risorse del sottosuolo stimate come superiori a quelle di qualunque altro Stato produttore al mondo. Si tratta di un petrolio non facilmente estraibile e raffinabile, richiede macchinari e procedimenti speciali, ma la ricchezza è ingente e non è di solo petrolio.

Chávez sale al potere ma non fa i conti con la realtà: la società petrolifera nazionalizzata PDVSA non ha risorse umane ed economiche per sfruttare appieno la ricchezza del sottosuolo, i macchinari dimorano arrugginiti e inefficienti. Lo Stato è dominato da élite corrotte ben lontane dall’idea di ridistribuire i proventi petroliferi sulla popolazione. Il Venezuela è costretto a importare petrolio, pur standoci seduto sopra. Chávez fa gravi errori di amministrazione: non accantona riserve, non diversifica l’economia e, per pagare i servizi sociali, contrae forti debiti con Russia e Cina, promettendo in cambio petrolio non ancora estratto. Tuttavia, Chávez ottiene dei risultati: il tasso di povertà del Paese si riduce, alcuni progressi sociali sono innegabili. In quanto militare, riesce a tenere insieme le due anime del Paese, quella che fa capo all’esercito e quella della politica civile. Il suo carisma personale gli apre una breccia nel cuore della popolazione: le migliaia di persone che accompagnano la sua salma, quando viene riportata da Cuba dopo l’ultimo tentativo di curarne il tumore, non sono mandate lì dal partito, ne compiangono sinceramente la morte, a torto o a ragione.

Il successore, Nicolás Maduro, i cui discorsi urlati a tutto volume da capo a fondo si distinguono per assomigliare a lunghe tirate di una maestrina di provincia, fa di peggio. Diventa presidente da sindacalista e autista degli autobus urbani della capitale. Gli manca ogni visione progettuale e ogni carisma. Non riesce più a ottenere prestiti, decide di cedere alla Russia direttamente quote di giacimenti petroliferi, sottraendole alla sovranità dello Stato. Si scontra, su questo provvedimento, con il Parlamento (Assemblea nazionale), che nel frattempo è passato in mano all’opposizione. Per superare l’ostacolo, Maduro esautora il potere legislativo, di concerto con il Tribunale supremo. Nomina un’assemblea costituente, a lui favorevole, con il compito di riformare la Costituzione e, naturalmente, confermare lui stesso al potere.

Nel frattempo, nei supermercati la popolazione non trova più nemmeno la carta igienica. Non è una battuta, è davvero così. L’inflazione si calcola in milioni percento (si, milioni). Una surreale «Legge dei prezzi giusti» obbliga le imprese a rendicontare e limitare secondo tabelle fisse ogni margine di guadagno applicato sulle singole fasi di produzione e commercio. Gli investitori si dileguano, restano solo Cina, Russia, Corea del Nord e pochi altri, che in Venezuela si sono giocati somme di denaro importanti, in cambio di petrolio ancora da estrarre o di lotti di campi petroliferi difficilissimi da sfruttare. Il Venezuela è il loro piedatterra in America latina, l’investimento ha una sua logica perversa. Poggia, però, sulle spalle di trenta milioni di venezuelani ridotti alla fame: chi può emigra, in quantità ormai analoga ai profughi fuggiti dalla guerra siriana, causando frizioni sociali e problemi di accoglienza in mezza America del sud.

Dalla fine del lungo periodo di dittature, in America latina, nei primi anni Ottanta, si fatica ancora a vedere la crescita di dirigenti all’altezza del loro compito, non schiacciati dalle macerie delle ideologie passate, quelle nazionaliste, oppure quelle comuniste o cattolico-marxiste degli eredi della «teologia della liberazione.» Tutto ruota intorno a una retorica che oggi è più facile da capire, per noi, in area di lingua italiana, con l’avvento dei partiti populisti e della loro insistenza sui «governi del popolo,» «manovre del popolo» e così continuando; una retorica rumorosa quanto debole nei contenuti concreti. Oggi, parte dell’Europa è straordinariamente vicina, nei linguaggi, all’America latina, dove ci sono governi che si chiamano «gobierno del poder popular» (Governo del potere del popolo) e «ministros del poder popular.» In chi conosce la storia, riecheggia la denominazione dei capi dei ministeri nella nascente Unione sovietica, i «commissari del popolo.»

Chi dice che Juan Guaidó, il giovane presidente dell’esautorato Parlamento venezuelano, è l’ultima parvenza di un potere legittimamente eletto in Venezuela, ha ragione. Non c’è molto da attendersi, però, da un’opposizione che non urla meno forte di Maduro e non sembra avere progetti chiari e uomini all’altezza di realizzarli. Ancora una volta, a decidere i giochi sono gli Stati uniti, che hanno rapidamente riconosciuto Guaidó come presidente autoproclamato. Il problema dell’America latina resta lo stesso: liberarsi, da una parte, dal giogo degli Stati uniti, e, dall’altra, dai paroloni populisti, dalla melassa religiosa e dai resti dei regimi marxisti. Nessuno di questi serve a guidare un serio cammino verso la maturità. L’Europa, anziché rappresentare un modello, oggi rischia di trasformarsi, per l’America latina, in un triste compagno di sventure.


* Contenuto pubblicato sulla pagina Facebook dell’autore, ricercatore in relazioni internazionali.