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Monte dei Paschi di spazzatura. La verità dietro la banca senese

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“Spazzatura” è una parola evocativa se riferita a un debito. Nessuno l’aveva accostata al Monte dei Paschi. Da ieri lo ha fatto l’agenzia Moody’s scatenando i venditori in Borsa (-4%) e la solita ridda di commenti nella città del Palio.

Dove la campagna elettorale – si dovrebbe votare in primavera, per ridotare Siena del sindaco fatto fuori per beghe interne al Pd sulle nomine del management bancario – è un misto di dalli al Monte, di sindacati che invocano la discesa in campo dei partiti per parare i tagli (pardon, “esternalizzazioni”, di 2.360 dipendenti come da piano di rilancio: Mps è anche la prima azienda cittadina, la trattativa si è chiusa proprio ieri, senza accordo) e di tutti contro il Pd.

Il partito di governo, che qui per decenni ha potuto dire “abbiamo una banca” (altro che Bnl) non l’ha saputa difendere, e passare indenne i marosi della globalizzazione e della crisi finanziaria. Colpa di un tessuto a maglie troppo fini, dove l’incesto è regola e l’endogamia produce figli scadenti.

Colpa, anche, degli uomini al potere, che sull’asse Comune-Provincia-Fondazione-banca hanno compiuto le scelte che hanno ridotto a una frazione valore e patrimonio del Monte e della fondazione azionista e minato alla radice la funzione di ufficiale pagatore dell’istituto, per la gioia bellezza e ricchezza dell’intorno. Oggi siamo alla spazzatura finanziaria, a un presente la va o la spacca e a un futuro da scrivere e diverso.

«Sopra la banca la città campa, ma sotto la banca la città ci crepa», diceva il preside di una locale facoltà. «Visto oggi, forse è vero che c’è stato un eccessivo legame tra banca, comunità ed enti nominanti. Ma è una considerazione da senno del poi», chiosa Gabriello Mancini, presidente della fondazione , che ha speso quasi tutto il patrimonio per difendere “quota 51%” e oggi si ritrova inerme al 33%, ma prospetticamente – dopo l’aumento da un miliardo riservato a nuovi soci che la banca lancerà l’anno prossimo – dovrà difendere “quota 20%”, forse 15 o 10. A Siena, dove i tre sport sono Palio, basket e Monte, numeri simili erano eresie da foresti.

«Noi abbiamo interpretato e portato avanti un sentimento diffuso e radicato nella comunità, e avallato da precisi documenti programmatici dei nostri enti nominanti, concordando orientamenti con loro». Mancini chiama in causa Comune e Provincia, feudi del Pci-Ds-Pd che nominano 13 consiglieri su 16 in fondazione. Erano loro a decidere, fomentati dagli elettori-cittadini che, quando non lavorano in banca, ne sono clienti o beneficiari come sponsorizzazioni, iniziative, erogazioni. Un circolo chiuso, tutti alla greppia e nessun controllo autonomo.

Neanche il Pd romano, si dice tra le viuzze medievali come dentro la banca, ha saputo tenere a bada il notabilato locale. «Magari la banca l’avesse diretta il Pd!», dice un insider, memore di quando il ministro del Tesoro Vincenzo Visco venne preso a male parole perché chiedeva di conformare lo statuto dell’ente alla sentenza della Consulta, e incarnare lo spirito della legge Ciampi che voleva la società civile in maggioranza nelle fondazioni.

Anche Piero Fassino ricorda talvolta quando da segretario, con il padre nobile Giuliano Amato (eletto nel collegio senese) saliva da Roma per convincere i locali a mollare il 51%, respinto. Ma son cose del passato: lo statuto è in via di modifica, la Provincia di Siena rischia di essere soppressa dal governo Monti, tra un anno la deputazione della fondazione va al rinnovo e Mancini non è ricandidabile. Novità in vista anche nell’azionariato.

«Mi pare abbastanza evidente che la fondazione scenderà di molto: per l’aumento riservato, ma anche perché dovrà ripagare parte dei debiti rimasti e diversificare il patrimonio – ragiona Alessandro Profumo, presidente nel ruolo di garante della transazione. Poi entrerà un pugno di investitori con quasi altrettante azioni, quindi prevedo un capitale molto diffuso. Sarà un mondo diverso, diversa formazione della gestione d’impresa e del cda.

Ma in qualunque caso sarà fondamentale mantenere un buon rapporto con la comunità senese: sono tutti nostri clienti». Alle otto di sera l’ex ad di Unicredit fa il punto di giornata nel suo ufficio con l’ad Fabrizio Viola; se recitano concordia sono attori da Oscar. «Chiaro che la mossa di Moody’s ci disturba – dice Viola – per la tempistica e le motivazioni». Secondo l’agenzia, a Mps potrebbero servire ulteriori aiuti pubblici, soffre «un deterioramento operativo, con profittabilità ridotta». Sul mercato, però, non è molto chiaro come una banca di fatto nazionalizzata, dove lo Stato ha messo 3,4 miliardi, abbia un rischio così peggiore dei Btp.

«Forse un eccesso di zelo dell’agenzia di rating – dice Matteo Ghilotti, capo della ricerca di Equita – tra l’altro Mps è all’inizio di un progetto di ristrutturazione che il mercato può apprezzare». Viola rimarca quel che ha fatto in quattro mesi, mentre tutti a Siena si accapigliavano attorno a Rocca Salimbeni: «Un piano industriale con costi tagliati di 600 milioni, la disdetta dell’integrativo aziendale, il ricambio di otto decimi del management. E senza condizionamenti».

Sullo sfondo resta aperta l’inchiesta della Procura locale sull’acquisizione di Antonveneta, 9 miliardi male investiti che hanno portato i guai veri. I pm cercano un difetto nelle comunicazioni con la vigilanza sul prestito convertibile Fresh, e l’aggiotaggio sul titolo (contro ignoti). Non sembra che, per ora, cerchino “stecche” della transazione famigerata. Quattro indagati, l’ex dg Antonio Vigni e l’ex collegio sindacale. Mistero sul fatto che sia indagato l’ex presidente Giuseppe Mussari oggi alla guida dell’Abi, l’uomo che il tassista di Siena incolpa per lo stato di cose. Né lui né la procura hanno confermato indiscrezioni di stampa.

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