Pubblicate le motivazioni della sentenza di condanna a 7 anni di Dell’Utri: il senatore Marcello Dell’Utri ha svolto una attivita’ di “mediazione” e si sarebbe posto quindi come “specifico canale di collegamento” tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi.
Sono state depositate oggi le motivazioni della sentenza di secondo grado, emessa lo scorso 29 giugno, che ha sancito la condanna del senatore del Pdl Marcello Dell’Utri a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Per i giudici della corte d’Appello di Palermo il politico sarebbe stato un vero e proprio anello di congiunzione tra la mafia e il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi quando questi era ancora soltanto un imprenditore del settore delle costruzioni.
L’impegno di Dell’Utri avrebbe infatti agevolato il rafforzamento di Cosa nostra negli ambienti imprenditoriali ed economici milanesi. Nelle motivazioni quindi si fa riferimento alla figura del boss palermitano Vittorio Mangano, chiamato da Dell’Utri a ricoprire ufficialmente il ruolo di stalliere nella villa di Arcore del premier, ma in realtà assunto per tutelare la figura dell’imprenditore e della sua famiglia in cambio di “ingenti somme di denaro”.
Sono state ritenute attendibili, infine, le rivelazioni del pentito Francesco Di Carlo il quale raccontò di un incontro, avvenuto nel 1975 negli uffici di Berlusconi, e al quale presero parte alcuni esponenti di spicco di Cosa nostra tra i quali anche Stefano Bontade, il principe di Villagrazia, considerato uno dei principali capimafia dell’epoca. (ANSA-ASCA-APCOM)
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Marcello Dell’Utri per i giudici è stato “il mediatore tra i boss e Berlusconi”
di Marco Lillo e Giuseppe Lo Bianco – Il Ftato Quotidiano
Le motivazioni della condanna a sette anni per il senatore del Pdl. Secondo la Corte d’appello di Palermo: “E’ l’anello di congiunzione tra Cosa nostra e B”
(WSI) – Per quasi vent’anni Silvio Berlusconi ha preferito pagare la mafia pur di non denunciare le estorsioni subite: dall’arrivo di Vittorio Mangano ad Arcore al pizzo delle antenne palermitane dei primi anni ’80. Se fosse iscritto a Confindustria dovrebbe essere immediatamente espulso. Per garantirsi la tranquillità ha incontrato a pranzo boss del calibro di Bontade e Teresi, e si è persino vantato con i carabinieri di pagare i criminali per stare tranquillo: “Via, maresciallo, per trenta milioni…!”. Lo ha fatto grazie alla “mediazione” del suo braccio destro, Marcello Dell’Utri, condannato per mafia a sette anni nel giugno scorso.
Non sono le parole di una “toga rossa”, ma quelle della corte di appello di Palermo che ha depositato in 641 pagine le motivazioni della condanna del senatore Marcello Dell’Utri a sette anni per concorso in associazione mafiosa da cui emerge un quadro sconcertante dei rapporti tra Berlusconi e Cosa Nostra. Il pm che ha sostenuto l’accusa in primo grado, Antonio Ingroia, commenta: “Non posso che esprimere soddisfazione perchè è un’ulteriore conferma della bontà dell’impianto accusatorio del processo di primo grado”. E cioe’ che quella del suo braccio destro, Marcello Dell’Utri, non era un’innocua amicizia con Vittorio Mangano, il suo “eroe”, soggetto dalle parentele “ingombranti”.
Non era “una sporadica frequentazione con un emergente esponente mafioso”: no, Marcello Dell’Utri, scrivono i giudici, “ricorrendo all’amico Gaetano Cinà e alle sue autorevoli conoscenze e parentele, ha svolto la contestata attività di “mediazione” operando come specifico canale di collegamento tra l’associazione mafiosa Cosa nostra, in persona di Stefano Bontate, all’epoca uno dei suoi più autorevoli esponenti, e Silvio Berlusconi, imprenditore milanese in rapida ascesa economica in quella ricca regione”. E dunque Mangano fu assunto ad Arcore come “stalliere” non tanto per accudire i cavalli ma per garantire l’incolumità di Silvio Berlusconi”, “avviando un rapporto parassitario protrattosi per quasi due decenni”.
Berlusconi avrebbe pagato “ingenti somme di denaro in cambio della protezione alla sua persona e ai familiari”. La vicenda dei pagamenti da parte del Cavaliere si intreccia, secondo i giudici, con altri versamenti per la “messa a posto” della Fininvest che all’inizio degli anni ’80 aveva cominciato a gestire alcune emittenti televisive in Sicilia. “Sfruttando proprio quell’amicizia e quel rapporto che lo collegavano direttamente ai vertici della potente criminalità organizzata siciliana – scrivono i giudici – Dell’Utri ha fornito un indubbio, rilevante e insostituibile contributo all’associazione mafiosa Cosa nostra consentendo ad essa di imporre ed attuare la consueta attività estorsiva ai danni del facoltoso imprenditore milanese al quale, secondo le usuali modalità operative del sodalizio criminale, furono sistematicamente estorte per quasi due decenni ingenti somme di denaro in cambio della “protezione” alla sua persona ed ai familiari”.
Ma, chiariscono subito dopo i giudici, si trattò di una ben singolare estorsione, perche’ condivisa, e a tratti cercata, dallo stesso Berlusconi: “Si ha conferma quindi che almeno in quegli anni ’70 e ’80 – è scritto nella sentenza – il Berlusconi, pur di stare tranquillo, preferisse trovare soluzioni accomodanti subendo e accettando richieste estorsive piuttosto che rifiutarle denunciando i fatti all’Autorità”. Emblematica, al riguardo, la telefonata con Dell’Utri del 29 novembre poche ore dopo l’espolosione dell’ordigno collocato sulla recinzione della villa di via Rovani a Milano. Berlusconi, ridendo, riferiva al suo interlocutore il contenuto del colloquio già avuto con i Carabinieri di Monza: Ah, si? In teoria, se mi avesse telefonato, io trenta milioni glieli davo!” (ride). Scandalizzatissimi: “Come, trenta milioni? Come? Lei non glieli deve dare che poi noi lo arrestiamo!”. dico: “Ma no, su, per trenta milioni!”
“Non e’ stata acquisita prova certa, né concretamente apprezzabile, del preteso accordo politico-mafioso stipulato tra cosa nostra e l’imputato Marcello Dell’Utri”. Così la Corte di Appello di Palermo concede a Marcello Dell’Utri un’assoluzione per la fase politica del suo impegno in favore di Silvio Berlusconi sul fronte siciliano. Questa frase rappresenta però anche un argomento potentissimo da spendere sul fronte mediatico che i giudici consegnano a Berlusconi. Per sanare tutto quello che è stato finora scritto, testimoniato e intercettato sui rapporti tra Forza Italia e la mafia e sul ruolo di Dell’Utri i giudici impiegano poco meno di 300 pagine.
La Corte d’appello non mete in discussione l’appoggio della mafia a Forza Italia dichiarato in coro da decine di pentiti e testimoniato dalle intercettazioni. Ma si chiedono “se questa fu adesione spontanea” ovvero se sussistano “prove dimostrative del fatto che l’imputato Marcello Dell’Utri, relazionandosi con esponenti mafiosi, abbia contribuito, con accordi e promesse, a suscitare o anche rafforzare il convincimento che Cosa nostra, offrendo sostegno al nuovo partito, avrebbe ottenuto concreti vantaggi”. La risposta è negativa ed è basata su un’interpretazione riduttiva di tutti gli elementi raccolti dall’accusa e valorizzati dalla sentenza di primo grado. A partire dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza sul celebre incontro al bar Doney con il boss Giuseppe Graviano, euforico perché aveva “il paese nella mani grazie a Berlusconi e Dell’Utri”. Per la Corte “il preteso contributo di Spatuzza, pur preceduto da una rilevante attesa anche mediatica, si è connotato invece conclusivamente per la sua assai limitata, se non del tutto insussistente, consistenza oltre che per la manifesta genericità”.
Secondo la Corte di Appello, Spatuzza ha parlato troppo tardi di quell’incontro e i riferimenti a Dell’Utri e Berlusconi sono poco credibili perché giunti in ritardo. In pratica la paura di dire tutto subito, che è già costata lo status di collaboratore di giustizia a Gaspare Spatuzza, invece di rappresentare un riscontro della credibilità delle affermazioni rese (che nessun vantaggio hanno comportato per il collaboratore) rende poco credibili le dichiarazioni tardive. Al pentito che ha sempre affermato di avere atteso un anno per raccontare quello che sapeva sui politici per paura delle conseguenze negative sulla sua sorte (poi puntualmente verificatesi) la Corte ribatte a brutto muso: “Ne consegue che, se le dichiarazioni differenti rese in dibattimento alla Corte devono ritenersi comunque utilizzabili, il giudizio sull’attendibilità intrinseca dello Spatuzza, con riferimento a quanto dallo stesso affermato sui fatti ritenuti di rilievo nel presente giudizio, non può che essere
negativo”.
Sempre sui rapporti con i boss Giuseppe e Filippo Graviano, la Corte svaluta l’episodio del provino del giovane calciatore Gaetano D’Agostino. Secondo il Tribunale era provato che il piccolo e promettente giocatore, figlio di un favoreggiatore dei Graviano (allora aveva 10 anni) era stato raccomandato da Marcello Dell’Utri. Per la Corte di Appello invece non è così. Ma la Corte smonta anche la prova regina della mediazione di Dell’Utri nei rapporti tra mafia e Berlusconi nella fase della discesa in campo: gli appunti sugli incontri con lo stalliere di Arcore, Vittorio Mangano. Secondo il Tribunale nel suo interrogatorio era stato lo stesso Dell’Utri ad ammettere quegli incontri con Mangano a Milano, proprio nella fase in cui i mafiosi cercavano conferme e impegni dalla nascente formazione politica.
Per la Corte di appello invece “emerge dunque con assoluta ed incontestabile chiarezza dall’esame del verbale di interrogatorio che Marcello Dell’Utri non ha affatto ammesso di avere avuto con Vittorio Mangano quei due incontri del 2 e del 30 novembre 1993 che invece la sentenza appellata ha ritenuto essersi verificati sia sulla base di una interpretazione delle annotazioni sul brogliaccio della segretaria che deve ritenersi del tutto errata”. Per sostenere questa tesi, i giudici arrivano a sostenere che in uno dei due appunti era indicato solo il cognome. E dunque poteva trattarsi di un altro Mangano, presente anche lui sulle agende di Dell’Utri: Roberto, non Vittorio.
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