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La maxi tangente algerina di Saipem e i conti a Singapore

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ROMA (WSI) – «Più di cento milioni di dollari» che la Procura di Milano chiede ora a Singapore di bloccare su conti riconducibili all’intermediario della Saipem in Algeria (Farid Bedjaoui) e interfaccia a Dubai del ministro algerino dell’energia Chekib Khelil; un mandato di cattura internazionale nei confronti di Bedjaoui e altri 23 milioni che i pm vogliono congelargli a Hong Kong; poi una rogatoria in Libano su conti collegabili alla famiglia del ministro partecipe di società costituite da Bedajoui tramite una fiduciaria svizzera a Panama; intanto due viaggi in Italia costati 100 mila euro e pagati dall’ex presidente di Saipem Algeria, Tullio Orsi, al presidente dell’azienda petrolifera statale algerina Sonatrach, Mohamed Meziane, e ai suoi familiari; una consulenza di mille euro al mese al figlio di Meziane come «consigliere personale» di Orsi; infine, sempre sul versante algerino, 1 milione e 750 mila dollari andati al capo di gabinetto di Meziane, El Hameche Mohammed Reda.

Ma anche 10 milioni di euro rimbalzati in Italia al direttore operativo Saipem, Pietro Varone; e «5,2 milioni versati da Bedjaoui (con il consenso di Varone) a Orsi» per pagarne il «prezzo del silenzio su fatti imbarazzanti» al momento dell’allontanamento di Orsi dall’azienda (con 4 mila euro al mese di consulenza) come iniziale capro espiatorio.

Arresti fantasma

A scoperchiare ora questo internazionale vaso di Pandora è un ordine di cattura internazionale e un arresto eseguito dalla Guardia di Finanza e dai magistrati milanesi in gran segreto giovedì 28 luglio e da 11 giorni incredibilmente sfuggiti a tutti: l’ordine per Bedajoui e l’arresto di Varone, il manager licenziato da Saipem dopo che 7 mesi fa i pm Fabio De Pasquale e Giordano Baggio fecero affiorare con una acquisizione di posta elettronica dei server dell’Eni l’iceberg dell’inchiesta per «corruzione internazionale» nella quale – oltre a Varone, a Orsi, a Antonio Vella e all’ex amministratore delegato di Saipem Pietro Tali – sono indagati anche l’amministratore delegato Eni, Paolo Scaroni, il dimessosi direttore finanziario Eni Alessandro Bernini, e la persona giuridica Eni.

Parla Orsi

Anche sulla scorta delle dichiarazioni di una persona «omissata» nelle vecchie perquisizioni e che ora si scopre essere Orsi, il gip Alfonsa Ferraro ricostruisce come Saipem abbia acquisito 7 contratti d’appalto in Algeria del valore di 8 miliardi di euro (dai quali ricavare profitti per 1 miliardo di euro) grazie al pagamento nel 2007-2010 di circa il 2,5% di tangente, cioè di 197 milioni di dollari di compenso a fittizie intermediazioni prestate da «Pearl Partners Limited»: una società di Hong Kong gestita dal fiduciario algerino Ourayed Samyr (ora pure ricercato) ma appartenente in realtà al facoltoso Farid Bedjaoui, algerino di 44 anni ma con passaporto francese e residenza a Dubai, detto «il Giovane» da chi lo sapeva essere il referente de «il Vecchio», cioè del ministro dell’Energia algerino.

Controlli falliti

Per gli inquirenti, ciò è potuto accadere in «un contesto, la Saipem e più in generale il gruppo Eni, che ha favorito l’adozione di comportamenti devianti». Infatti «è certo che i contratti di intermediazione stipulati tra Saipem e Pearl Partners siano stati solo una copertura documentale per permettere la fuoriuscita di denaro da Saipem. E tuttavia – questa maschera – risulta essere stata assistita da pareri legali interni ed esterni, confezionati da vari studi, e ha superato tutte le verifiche delle funzioni di compliance e di audit tanto in Saipem quanto a livello della controllante Eni, nonché il vaglio dei revisori e del collegio sindacale di entrambe le società».

Gli inquirenti additano anche «il silenzio mantenuto dai vertici di Saipem e di Eni nei confronti dei propri organi di controllo interno ai quali, come emerge dalle relazioni interne e dalle dichiarazioni rese al pm dal responsabile dell’area legale Eni, avvocato Massimo Mantovani, non è stata data alcuna informazione sui contratti e sui pagamenti». Tanto che, solo dopo la riunione del 27 novembre 2012, l’emergere di queste intermediazioni fa dire al teste Mantovani: «Siamo rimasti sconcertati dall’esistenza di contratti di intermediazione di tale entità e del fatto che fossero stati stipulati dopo verifiche molto sommarie».

Gli incontri di Scaroni

Anche Varone, settimane prima di essere arrestato, ora si apprende che avesse fatto importanti ammissioni, a cominciare dal fatto che «Pearl Partners e Bedjaoui sono la stessa cosa», e che «Bedjaoui mi ha detto espressamente che dava soldi al ministro dell’Energia Khelil». Inoltre Varone «ha aggiunto che i contatti con il ministro in relazione al contratto Menzel Ledjimet EastL erano stati tenuti al più alto livello dall’amministratore delegato Eni Paolo Scaroni, e che i tre personaggi-chiave, e cioè Khelil, Scaroni e Bedjaoui, si erano incontrati più volte a Parigi, Vienna e Milano».

Ma «nel cercare di diminuire la portata del suo coinvolgimento – è la convinzione del gip – Varone ha reso dichiarazioni contraddittorie e inverosimili», come quando ha motivato la ricezione di 4 milioni con il fatto che avrebbe dovuto fare da prestanome di un commerciante nigeriano che senza comparire voleva acquistare per 5,7 milioni di euro l’ex palazzo del Tar in via Conservatorio nel centro di Milano. E nel «coinvolgere genericamente i vertici di Eni», il gip contesta a Varone di averlo fatto «senza dare un contributo conoscitivo su ruoli e condotte».

«Carcere irragionevole»

I difensori Alessandro Pistochini e Davide Steccanella hanno fatto ricorso al Tribunale del Riesame contro una carcerazione che ritengono «sproporzionata e irragionevole» per chi «due volte si è spontaneamente presentato in Procura a farsi interrogare» su fatti «che risalgono a 3 anni fa» e per i quali Varone è fuori azienda già da 7 mesi.

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