Economia

Inflazione: perché trasferisce ricchezza dai creditori ai debitori

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news

L’inflazione viene spesso definita come una tassa occulta, poiché l’aumento dei prezzi di beni e servizi riduce di fatto il potere d’acquisto delle somme a disposizione di famiglie e imprese. Per gli economisti, però, l’inflazione è anche qualcos’altro. E’ un fattore che incide sulla ricchezza dei debitori e dei creditori – in favore dei primi. In particolare, chi ha contratto un debito a tasso fisso, si trova nella posizione di maggior vantaggio.

L’argomento ritorna di grande attualità ora che, dopo mesi di politiche economiche e monetarie anti-Covid, si starebbe avvicinando una nuova fase caratterizzata da un’inflazione più sostenuta.

Nell’Eurozona l’inflazione ha raggiunto il 2% a maggio, con un’accelerazione dello 0,3% rispetto a febbraio. L’1,19% di questo aumento è stato dovuto all’incremento anno su anno dei prezzi dei prodotti energetici. Per il momento non è chiaro se questo aumento si rivelerà temporaneo, come affermato dalla Bce (e, per l’analoga situazione Oltreoceano, anche dalla Fed) o sarà destinato a proseguire.

Perché l’inflazione favorisce i debitori

L’inflazione, almeno sotto il profilo psicologico, non piace a nessuno. Se i prezzi aumentano, il valore del proprio risparmio detenuto in contante, si riduce. Anche in questo caso, però, le conseguenze non sono uguali per tutti. Il danno subito cresce di pari passo con le somme detenute sotto forma di liquidità. Per i lavoratori che vivono di mese in mese, con pochi risparmi sul conto corrente, le cose sono un po’ diverse.

Infatti, quando si verifica un aumento dei prezzi, gli economisti tendono ad associarvi un parallelo aumento nelle retribuzioni. Anzi, a innescare l’inflazione, in particolari circostanze, è proprio la crescita delle pretese salariali da parte dei lavoratori (quando la disoccupazione è bassa e le imprese faticano a colmare le posti vacanti). La “spirale prezzi-salari”, tipica dell’inflazione sperimentata negli anni Settanta, è uno degli scenari ipotizzati per i prossimi mesi – soprattutto negli Stati Uniti, poiché il tasso di disoccupazione è sceso con più rapidità rispetto a quanto osservato in Europa.

Mentre i prezzi e i salari tendono ad adeguarsi gli uni agli altri, il debito a tasso fisso resta fermo alle aspettative di inflazione ritenute più corrette al momento della firma del contratto.
Così, il creditore riceverà i suoi interessi con un denaro il cui valore, relativamente al prezzo di beni e servizi, è più basso del previsto. Per il debitore, dunque, l’inflazione equivale a uno sconto di fatto sull’onerosità del suo debito; per il creditore, al contrario, si riduce il valore della remunerazione ricevuta.

Anche per il debito pubblico si applica lo stesso discorso: in questo caso è lo Stato, nella sua veste di debitore, ad approfittare dell’inflazione per alleggerire il peso reale del suo debito. Con l’inflazione sale, infatti, anche il Pil nominale e con esso il gettito fiscale. Quest’ultimo poi potrà essere “girato” ai creditori: banche, imprese, famiglie.