Società

I ragazzi italiani senza futuro e senza lavoro vorrebbero andare all’estero

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

Ci risiamo, l’Italia non è decisamente un paese per giovani. Neppure due illustri connazionali che espugnano la prestigiosa top ten della rivista Popular Science, l’Olimpo degli scienziati under 40 più promettenti d’America, riescono a farci recuperare terreno sull’orizzonte allontanatosi da almeno un ventennio.

Sì, perché mentre la fisica anconetana Chiara Daraio e l’ingegner Maurizio Porfiri tengono alto il tricolore negli Stati Uniti, il 40 per cento dei loro ex compagni di studi considera la propria permanenza in Italia una vera e propria sfortuna e il 40,6 per cento si trasferirebbe seduta stante altrove, dal Nuovo Mondo (16,1) alla Francia (16,5), dall’Inghilterra (11,9) alla Germania (10,1). I dati, contenuti nel VI Rapporto della Fondazione Migrantes, sono lo specchio di un deserto senza fine in cui, sorprendentemente, poco meno di un intervistato su sei si accontenterebbe perfino della Spagna «indignada» con il suo 21 per cento di disoccupazione: tutto tranne convivere con lo spettro della precarietà che angoscia il 43,5 per cento degli under 24 e il 33,6 per cento dei fratelli maggiori ma ancora entro il critico 34esimo anno d’età.

«Alcuni spazi giovanili importanti come l’università soffrono in Italia di una carenza di opportunità e strutture che rende problematica la formazione e ridimensiona l’aspetto altrimenti arricchente della circolazione delle persone», osserva monsignor Giancarlo Perego, direttore generale di Migrantes. Il punto, sembra, non è tanto il posto fisso, ghiotta eredità del boom economico di cui i nati dopo il 1975 hanno solo sentito vagheggiare nostalgicamente. I nostri laureati, i ragazzi alla pari e i logati Erasmus, i volenterosi trentenni disposti a reinventarsi un mestiere a migliaia di chilometri da casa, i cervelli ma anche le braccia in fuga non emigrano per seguir virtude e conoscenza ma perché hanno perso la speranza. Questo almeno registrano gli studi di settore, da Migrantes all’Istat a Eurispes, secondo cui uno su cinque di loro non studia né lavora e l’inattività femminile è pari al 49 per cento. Sono la cosiddetta «generazione invisibile», motori potenti che però non sono ancora stati accesi.

Il risultato è che la diaspora, temporanea o permanente, cresce a dismisura. A memoria d’anagrafe 4.115.235 italiani vivono al momento all’estero, oltre 90 mila in più del 2010. Rispetto all’anno precedente fanno le valigie con maggior decisione le donne (47,8 per cento), i giovani (gli over 65 sono scesi dal 19,2 al 18,6) e i minori (passati dal 15,4 al 16, ma erano 15,4 nel 2010). I liceali in particolare sembrano sempre più attratti dalla prospettiva di anticipare lo stage universitario e al quarto anno approfittano volentieri di progetti come Intercultura, Wep o Comenius.

«I paesi anglosassoni mantengono una grande attrattiva specialmente per il tirocinio di lavoro ma la vera novità è la Spagna dove negli ultimi 5 anni l’incremento degli italiani registrati all’Aire, l’albo dei residenti all’estero, è stato del 56 per cento», nota Delfina Licata, curatrice del rapporto. Chiunque abbia visitato Barcellona e Madrid non può che confermare l’impressione di sentirsi praticamente a casa.

Chi porta avanti allora, negli atenei e nelle officine, il paese che si sta abituando ad accompagnare all’aeroporto i suoi figli, la società gambero ripiegata su se stessa? Monsignor Perego sostiene che esista comunque uno scambio costruttivo. Se in dieci anni il numero degli italiani emigrati per motivi di studio è passato da 13.236 a 17.754 anche quello degli stranieri in viaggio in senso inverso è cresciuto da 8.739 a 15.530.

Certo, restiamo un paese meno appetibile di altri di cui è difficile nascondere che gli imprenditori under 34 sono appena il 12,6 per cento del totale, il 41,5 degli under 35 abita ancora con i genitori e almeno 70 mila vincitori di concorsi pubblici non sono mai stati assunti. Difficile pubblicizzare oltreconfine il brand del Belpaese se oltre alla precarietà lavorativa i giovani italiani scontenti di vivere nel proprio paese menzionano tra gli handicap la mancanza di senso civico (20,6 per cento), l’eccessiva corruzione (19,1), la classe politica (15,2), la condizione economica (8,6), il tasso di criminalità (3,9), lo stato del welfare (1,3). Eppure nei campus americani dove eccellono scienziati del calibro di Chiara Daraio e Maurizio Porfiri il genio italico resiste e sono probabilmente proprio i cervelli fuggiti, più o meno felicemente, a far brillare di luce riflessa il paese nel quale si sono formati.

«E’ chiaro che gli italiani avvertono maggiormente l’incertezza per il futuro e la staticità laddove magari all’estero si spostano facilmente con tanto di lavoro dalla Germania alla Svizzera alla Gran Bretagna», ammette Delfina Licata. Ma la fine di una speranza può anche significare l’inizio di un’altra: «L’idea di movimento è cambiata e gli italiani non fanno eccezione, il paese dovrebbe rendersi più appetibile». In attesa non c’è solo la generazione invisibile, ma c’è quella ben illuminata dai riflettori stranieri che magari, in un’Italia all’arrembaggio dell’orizzonte, potrebbe un giorno tornare indietro.

Copyright © La Stampa. All rights reserved