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Federalismo, come andare piu’ veloci verso il crack

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(WSI) – Dialetto in classe. Province in erba. Piccole aziende pubbliche locali. Mentre il mondo si globalizzava, l’Italia tornava ai comuni medievali e scopriva le piccole patrie identitarie. Il territorio della Lega, il suo presidio nordista (area produttiva nazionale e collegamento europeo), ha portato tutti gli altri partiti politici ad ansimare dietro a Bossi sul federalismo. Mentre il mondo scopriva i grandi flussi finanziari e la dislocazione di intere filiere produttive in Asia, qui da noi si proteggevano i distretti industriali. Così, la Lega difendeva gli unici sistemi produttivi rimasti in piedi dopo tangentopoli, e al tempo stesso costruiva i suoi successi politici su un progetto di frammentazione dell’unità italiana.

Tatto questo accade mentre a Milano, da qualche giorno, ha aperto in pompa magna la prima banca cinese, il cui capitale è grande quanto il Pil italiano. E poi ci si lamenta della delocalizzazione.

Numeri alla mano sembra che il federalismo che vuole la Lega serva soltanto a trasferire i costi del mantenimento della classe politica dal centro alla periferia. Nel 2009 (ultimo anno con dati certi) la spesa statale c stata di 459 miliardi di curo, mentre la spesa consolidata delle amministrazioni locali è stata di 255 miliardi di euro. In tutto 714 miliardi di euro. Ma alla fine la spesa certificata dalle amministrazioni pubbliche nel loro complesso è stata di 799 miliardi. Quindi sono rimasti nella rete oltre 84 miliardi di euro di spesa discrezionale.

Alla fine, i governi hanno aumentato la spesa sociale in rapporto alla crescita delle entrate pubbliche, ma senza tassare i cittadini in proporzione alla spesa statale. La differenza si chiama spesa clientelare, soprattutto locale.

Quindi, il federalismo dovrebbe far diminuire i trasferimenti dal centro alla periferia e decurtare i fondamentali del debito pubblico nazionale. Ma come funziona la macchina dell’attuale federalismo appena proposto? La questione (come è stata posta dalla Corte dei Conti) riguarda soprattutto le società partecipate dalle amministrazioni locali, che sfuggono in gran parte al meccanismo dei trasferimenti centro-periferia. Comuni, Province, Regioni, alla fine del 2009, hanno costituito circa 7.100 consorzi e società, con un aumento del 5% rispetto all’anno precedente, per cui è difficile definire un meccanismo di trasferimenti in un contesto simile. Inoltre, a fmc aprile 2010,1e regioni italiane avevano speso solo un dodicesimo dei fondi europei stabiliti per il programma 2007-2013. Cioè, erano stati attivati da Bruxelles solo 3,6 miliardi di Euro su 44 disponibili. Pensare che, col federalismo, enti locali e regioni diventino subito efficienti pare velleitario, se non riescono a ritirare nemmeno i soldi che sono a loro disposizione dall’Unione.

Inoltre, il Fondo per le Aree Sottoutilizzate 2000-2006 di ben 21 miliardi di Euro, è stato utilizzato per il 42%. Perciò, come sarà possibile pensare di premiare con consistenti trasferimenti federalisti questi soggetti locali?

Sembra piuttosto che ci si trovi di fronte a una sorta di fallimento storico delle amministrazioni locali che, dalla fine degli anni Settanta, sono state la fonte dell’ascesa incontrollabile del debito pub *** blico italiano. L’aspetto piuttosto clientelare della spesa locale si vede anche nelle effettive realizzazioni degli interventi regionali, sia da trasferimenti centrali sia da tassazione locale, che è (sempre per la Corte dei Conti) sotto il 40%. Per non parlare del numero degli invalidi, la cui assistenza, appena trasferita agli Enti Locali, è passata di colpo dal 3,3% al 4,7% della popolazione, con una spesa che è lievitata da 6 a 16 miliardi di euro.

Inoltre, in questi anni, gli enti locali hanno fatto ricorso alla finanza derivata. E per estinguere questi contratti swap servono 60 miliardi di euro, distribuiti su 42mila clienti, di cui 30mila risultano essere proprio gli enti locali. Secondo Banca d’Italia, le perdite nette nel 2010 perle amministrazioni pubbliche derivanti dalla stipula di contratti derivati sono arrivate a 2,5 miliardi di euro che, nonostante il mito del federalismo economo, come il buon padre di famiglia, sono debiti occultati alla vista dei cittadini. E allora, chi paga? Lo Stato, o il maggiore indebitamento degli enti locali tramite la finanza derivata, così l’effetto elettorale sul territorio (vista la riservatezza di questi contratti) sarà minimo.

Anche la sanità, che assorbe circa l’80% della spesa media delle regioni italiane, è materia strettamente regionale, ma lo Stato ripiana a più non posso i deficit locali. Il decreto salva-deficit del giugno 2007, per esempio, e la successiva finanziaria del 2008, hanno stanziato la somma di 12,1 miliardi di euro per il solo ripianamento del debito sanitario di cinque regioni (Abruzzo, Campania, Lazio, Molise, Sicilia).

La soluzione, nelle attuali norme sul federalismo, è stabilire fabbisogni standard sui quali definire i trasferimenti dal centro alla periferia e eventuali azioni punitive dello Stato contro gli enti locali. Tuttavia il meccanismo non sembra molto affidabile. La legge 85/1995 sul fmanziamento di Comuni e Province, con il suo criterio di «fabbisogno teorico standardizzato», non ha evitato l’indebitamento progressivo degli enti locali. E anche il federalismo demaniale, già approvato, non sarà determinante perla risoluzione dei debiti degli enti locali. Infatti, per il passaggio agli Enti locali si ipotizza una utilizzazione finanziaria degli immobili trasferiti pari a soli 15 miliardi di euro.

Intanto gli elettori come non vedono i costi della spesa statale, non riescono a capire nemmeno i meccanismi di quelle locali. Quindi, quali sono le prospettive del federalismo che la Lega desidera, sbandierando lo slogan del “padroni a casa nostra”? Sarà il caso di rivedere un po’ il mito delle piccole patrie?

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