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Cosa ci insegna il salvataggio monstre di UBS

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GINEVRA (WSI) – Una cultura aziendale basata sull’ambizione, la competitività e la capacità di apprendere. Questi sono sempre stati i punti di forza di UBS, la più grande banca elvetica di allora. Una capacità che è venuta meno negli investimenti azzardati in America.

Nel 2008 UBS ha rischiato di fallire travolta dalla crisi subprime e dai propri errori. Dopo che il Ceo Marcel Louis Ospel ha annunciato oltre 20 miliardi di franchi di perdite, la banca è stata salvata dallo Stato e dalla banca centrale, scongiurando lo scenario catastrofico.

Il paradosso è che la stessa UBS aveva emesso una ricerca in cui diceva che il mercato americano stava andando male. I banchieri si sentivano in una botte di ferro, protetti dalle triple A scellerate delle agenzie di rating e arrivavano ordini dall’alto per crescere ancora e prendere rischi con l’obiettivo fisso di diventare la banca numero uno.

Fu così che 6 miliardi di franchi uscirono dalle casse dello Stato. Ben 62 miliardi di titoli tossici vennero prelevati dalla Banca Nazionale Svizzera. E Berna scoprì di dipendere fin dalle sue fondamenta dai grossi istituti bancari.

Di recente UBS ha annunciato di voler riacquistare i titoli comprati dalla BNS. La manovra è stata quasi un successo, secondo quanto riferito dagli ospiti della trasmissione radiofonica Modem, andata in onda sull’emittente RSI.

Se da un lato lo stato ha riavuto i soldi, dall’altro hanno perso parecchi soldi gli azionisti (anche fondi pensione, assicurazioni, molti privati e clienti internazionali) con i titoli della banca che da 70 franchi sono scesi a 8 franchi e oggi scambiano a quota 18-19. Gli azionisti hanno pagato buona parte della fattura e non hanno incassato dividendi per diversi anni. Il massimo del prezzo testato dalle azioni fu di 83 franchi.

Ci hanno perso anche i cantoni ed i comuni, che hanno visto decurtate di parecchio le entrate fiscali provenienti dalla banca e dal settore finanziario in generale.

Ma è vero che i contribuenti ci hanno guadagnato? Spesso quando l’economia torna a funzionare ci si dimentica dei buoni propositi spesi da analisti e politici durante la crisi.

Non va dimenticato che la Svizzera era con le spalle al muro. Un’economia a rischio che poteva perdere decine di migliaia di posti di lavoro presso UBS, ma anche perdere fornitori. Berna scoprì di dipendere troppo dai grossi istituti bancari “too big to fail”, che rappresentano cinque volte il Pil del paese.

In cinque anni sono cambiate molte cose, ma la nazione è tuttora appesa a un filo. Le misure non sono state sufficienti per scongiurare un rischio che c’è ancora oggi. La stessa banca nazionale ha detto che quella di salvataggio dell’istituto è stata un’operazione a rischio.

Ci vogliono cambiamenti e misure più efficaci. La dipendenza dalla finanza sta diminuendo ma troppo lentamente. Le autorità competenti hanno preso misure per uscire dall’estrema dipendenza dalle grosse banche, ma con un obiettivo a lungo termine.

Claudio Generali, imprenditore svizzero e vice presidente della catena media SRG SSR idée suisse, sostiene che la dipendenza dalle banche va possibilmente ridotta. “Quando nel 2010 la Svizzera annunciò la politica di pretendere dalle banche molte più riserve rispetto al resto del mondo (vedi Basilea III) “nel mondo ci fu chi criticò l’iniziativa”. Anche le Consob di tutto il mondo chiedono misure draconiane e garanzie come cuscinetti di capitale.

UBS ha ridotto l’attività nell’investment banking e a oggi è una della banche più capitalizzate al mondo, ma è ancora troppo grande per fallire. Con le richieste di copertura di capitale di rischio che vengono al di là delle norme di Basilea III, la Svizzera è più al sicuro di altri paesi.

Per ridurre la loro fragilità nei confronti del mercato, consapevoli di non essere in grado chiedere agli azionisti aumenti di capitale di questi tempi, riducono il bilancio e tagliano i crediti per diminuire i rischi.