Economia

Coronavirus e terrorismo: il prezzo della paura

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di Carloalberto Rossi e Giorgio Saibene

 

Se è vero che lo scopo degli stati occidentali contemporanei è produrre sicurezza e felicità per i loro cittadini, i modi per raggiungere tale sicurezza sono evidentemente molto diversi tra culture e climi differenti o, per dirla meglio, le paure e le ansie delle varie popolazioni possono avere manifestazioni e urgenze diverse, cioè creare allarmi di diverse intensità, e conseguentemente essere trattate in modo molto diverso dai vari governi.

È infatti normale che un governo si occupi delle principali preoccupazioni del suo popolo, e investa una parte della sua attenzione e azione amministrativa, quindi una parte del budget, per fronteggiare le singole paure, o almeno quelle che generano un maggiore allarme sociale.

E la morte, per quasi tutti gli esseri viventi, è la prima delle paure, quella che accomuna praticamente tutti, senza distinzione di censo, di razza o di condizioni climatiche in cui si vive, e la variabile vera, pensando alla morte, non è se accadrà, ma quando accadrà.

Però, se analizziamo i dati della spesa pubblica, o quelli della spesa sanitaria, e proviamo a confrontarli con le varie cause di morte scopriamo che non sempre si possono evidenziare correlazioni evidenti tra un oggettivo pericolo e l’investimento pubblico per scongiurarlo.

E possiamo notare alcune profonde anomalie, cioè casi in cui le organizzazioni pubbliche statuali accettano costi altissimi per debellare alcune cause di morte statisticamente irrilevanti, mentre altre cause, oggettivamente di maggiore incidenza statistica, cioè con un rischio evidentemente più alto, o semplicemente più evitabili, non scatenano altrettanta attenzione.

Nel mondo intero, su una popolazione di circa 7,7 miliardi di abitanti, ogni anno muoiono più di 60 milioni di esseri umani, con un tasso di mortalità di circa lo 0,8%, mortalità che varia molto tra le varie zone a seconda delle condizioni economiche, culturali e di sviluppo, e soprattutto a seconda del livello di anzianità della popolazione, dallo 0,7% in paesi giovani come Cina e India a tassi superiori all’1% in paesi dove la natalità è molto più bassa e la popolazione è ovviamente più anziana, come Italia, Francia e Germania e molti altri paesi europei.

E di questi 60 milioni, la maggior parte (WHO 2017) muore di qualche malattia o di vecchiaia, solo 3,5 milioni (poco meno del 6%) muoiono per cause accidentali o comunque non naturali, tra le quali 1,25 milioni muoiono ogni anno di incidenti stradali, quasi 800.000 si suicidano ma oltre 400.000 vengono assassinati, quasi 300.000 muoiono affogati, solo 10.000 muoiono durante disastri naturali ma ben 72.000 muoiono avvelenati, 120.000 muoiono negli incendi e 130.000 muoiono nei tanti conflitti e guerre, e ben 26.000 risulterebbero essere vittime di atti terroristici.

Cosa fanno i vari governi del mondo per ridurre questa strage? Quanti soldi si spendono per evitare questo esercito di vittime? È molto difficile scorporare dai bilanci pubblici e privati gli investimenti destinati ad evitare queste tragedie, come è altrettanto difficile contabilizzare il costo diretto di tutte queste morti, ma ci sono alcuni casi specifici in cui è possibile trovare degli indicatori di massima che ci consentano di fare dei confronti.

Abbiamo detto che fra i 60 milioni di morti annue ci sono circa 3,5 milioni di morti per cause meno naturali o comunque scatenate da comportamenti errati dell’uomo, ma tutti insieme questi decessi avvengono a fronte di una spesa sanitaria annua mondiale complessiva di 7.800 miliardi di dollari, poco più di 1.000 dollari a testa per ogni abitante della terra, ma sarebbe errato dire che questa spesa serve a curare quei 60 milioni di esseri umani che muoiono ogni anno.
Infatti questa enorme spesa sanitaria, non rappresenta solo il costo sanitario dei deceduti, bensì più in generale quello per garantire a tutta la popolazione mondiale la speranza di non entrare a far parte di quei 60 milioni meno fortunati. Possiamo dire che il mondo spende questi soldi per curarsi da malattie e ferite, per assistere la natalità e per migliorare le condizioni sanitarie, quindi non solo per evitare, o rinviare, la morte.

Quasi mai, però, l’allocazione di queste risorse è direttamente correlata al reale pericolo per la collettività, anzi più spesso l’allocazione delle risorse pubbliche per la sicurezza collettiva è condizionata da altri fattori, anche speculativi, a volte derivanti da panico diffuso, altre volte da panico o pressioni sociali incentivate ad arte per fini economico speculativi, altre ancora da coesistenti, ineleganti o inopportune ma spesso inconfessabili, ragioni di stato.

Ad esempio, tra le cause di morte prima censite ce n’era una assai significativa, la morte per conseguenza di atti o eventi terroristici, che secondo le statistiche (ONU 2017) colpisce in tutto il mondo circa 26.000 persone all’anno.
È quasi impossibile trovare dati sulla spesa mondiale in proposito, ma è nota almeno quella degli Stati Uniti d’America che, duramente colpiti dall’attacco del 11.09.2001 alle Torri Gemelle di New York e dagli attacchi simultanei ad altri obiettivi, nei quali si contarono complessivamente tremila morti e seimila feriti, dichiararono guerra non ad uno stato, ma al terrorismo islamico di Al Quaida. Un conflitto iniziato nel 2001 e praticamente ancora non terminato, anche se il nemico per definizione è cambiato da Al Quaida al soppravvenuto Islamic State.

Per questa guerra al terrorismo, secondo stime attendibili dello Stimson Institute, tra il 2002 e il 2017 gli Stati Uniti hanno stanziato e speso, oltre al normale budget della Difesa, circa 2.800 miliardi di dollari, cioè 175 miliardi di dollari all’anno.

Durante i 16 anni di questa operazione di “polizia internazionale” i civili americani morti per atti di terrorismo, dovunque accaduti nel mondo, sono stati mediamente 25 all’anno (cioè 400 in 16 anni), mentre nel corso delle operazioni correlate in Afghanistan le Forze Armate americane registrano nello stesso tempo circa 2.000 morti militari e altri 1.600 morti tra i vari contractors civili, rispettivamente 125 e 100 caduti mediamente all’anno, ai quali si aggiungono circa 20.000 feriti spesso rimasti invalidi.

I vari governi americani tra il 2001 e il 2017 hanno legittimamente  deciso di debellare la minaccia del terrorismo islamico sopportando un costo in vite umane di circa 250 perdite all’anno e un costo finanziario di circa 175 miliardi di dollari all’anno, apparentemente per evitare che potessero succedere in futuro altri fatti come quello scatenante delle Torri Gemelle, costato in termini di vite umane circa 3.000 decessi e che ha scatenato richieste di indennizzo alle assicurazioni per almeno 40 miliardi di dollari, cifra che rappresenterebbe i danni diretti e indiretti dell’evento, ai quali andrebbero aggiunti il costo del crollo dei mercati borsistici (che persero in una settimana il 15%), e altri danni al prestigio internazionale degli USA difficilmente quantificabili.

Al di la dei pur significativi danni materiali, la ratio è che il governo americano ha ritenuto di spendere 2.800 miliardi di dollari per garantire ai cittadini americani il diritto di poter circolare liberamente per le strade del mondo senza doversi preoccupare di restare inaspettatamente vittime di un imprevedibile attacco terroristico.

Purtroppo, per uno strano contrappasso, nello stesso periodo di tempo sul suolo americano si registrano 803 persone vittime di “mass shootings”, a cui si aggiungono altre 1.104 person ferite. Insomma, mentre i soldati americani combattevano contro il terrorismo nelle lontane e desolate lande di Afghanistan e Iraq, sulle strade di casa alcuni squilibrati senza comprensibili motivi causavano mediamente 50 morti  e 70 feriti all’anno, ma per combattere questo assurdo stillicidio di vite umane, mediamente il doppio di quelle dichiarate come vittime del terrorismo nello stesso periodo, non risultano azioni o finanziamenti concreti o specifici.

In questi giorni, infine, un altro drammatico caso di cronaca ci fornisce uno esempio evidente su come l’allocazione delle risorse per la sicurezza collettiva non segua una logica proporzionalmente correlata al reale pericolo sociale, anzi addirittura possa diventare essa stessa la causa primaria di un nuovo pericolo sociale “derivato”, grazie all’effetto devastante della diffusione delle paure più irrazionali e delle conseguenti scelte “short run” prese dai sistemi politici orientati (o condizionati) al consenso popolare: l’epidemia mondiale di coronavirus Covid-19.

L’epidemia si è palesata nella città cinese di Wuhan (di circa 11 milioni di abitanti) a inizio 2020 provocando un numero ufficiale di vittime di circa 3.300 persone su quasi 100.000 contagiati complessivi.

Per fermare l’epidemia le autorità cinesi si sono avvalse di un schieramento di forze e di provvedimenti non facili da replicare dalle nevrotiche democrazie occidentali, ma lo strumento principale è stato l’isolamento e la quarantena rigidissima alla quale è stata sottoposta l’intera popolazione della città per un periodo iniziato il 23 gennaio 2020 e che terminerà ufficialmente solo l’8 aprile 2020, cioè ben 78 giorni dopo.

L’epidemia si manifesta in Europa con casi isolati a metà febbraio, con un certo clamore e molte polemiche. Secondo gli studi presentati all’opinione pubblica il virus è molto contagioso ma poco letale, e vengono divulgati mezzi scenari che prevedono molti contagiati ma pochi decessi in percentuale, perchè la malattia infetterebbe tra il 50% e il 70% della popolazione con effetti seri solo su una parte minore dei contagiati (circa il 15 – 20%).
Il guaio è che una parte consistente di quella quota della popolazione che potrebbe ammalarsi avrebbe bisogno di essere curato in terapia intensiva, per un periodo tra le due e le tre settimane, e i letti disponibili per la terapia intensiva in Italia (ma la situazione è circa simile in tutto il mondo occidentale) sono solo 5.400, peraltro all’80% occupati normalmente da pazienti reduci da interventi chirurgici o simili.

Gli epidemiologi suggeriscono di chiudere le scuole e tutte le attività lavorative per rallentare la diffusione del contagio e quindi distribuire su un arco di tempo più lungo i ricoveri in terapia intensiva, in modo da non far collassare le strutture sanitarie e di poter continuare a dare cura ai normali utenti del Servizio Sanitario. Insomma, guadagnare tempo, rallentando ma di fatto non riducendo il contagio, fino a che non si trovi un vaccino.

La realtà che non emerge subito agli occhi dell’opinione pubblica è che allo stato attuale delle conoscenze mediche la quota di pazienti che escono guariti dalla terapia intensiva è estremamente bassa, cioè non c’è una terapia sicuramente efficace. Insomma, se il virus ti prende, nell’80% dei casi quasi non te ne accorgi, ma se ti prende male non c’è cura valida, e circa l’1% dei contagiati muore dopo una settimana di agonia.

A complicare le cose, il fatto che l’epidemia si manifesti come una polmonite acuta molto simile alla contemporanea influenza stagionale, la quale normalmente non spaventa nessuno, ma che in paesi come Italia, Francia e Germania produce in silenzio e senza tanto allarme ogni anno svariate decine di migliaia di morti tra le popolazioni più deboli di ognuno di questi paesi.

Anche per questo le reazioni dei vari paesi occidentali sono molto caute, tutti hanno prestato attenzione ai contatti con i viaggiatori cinesi, ne tengono qualcuno in osservazione, ma di epidemia non si parla, anche  se tutti notano tra le righe che ci sono stati molti casi di una “normale” polmonite, anche se molto aggressiva.

Le stesse procedure consigliate dalla Organizzazione Mondiale della Sanità prevedono di fare il test solo ai pazienti che presentino i sintomi della polmonite acuta e che abbiano una storia di contatti con le zone dichiarate a rischio, che a quel punto era solo la provincia cinese di Hubei e il suo capoluogo Wuhan.

In Italia, l’applicazione delle procedure OMS combinata con la mancanza di storie di contatto con la Cina (primo errore fatale), causano il contagio diffuso tra medici e pazienti di due ospedali molto distanti tra loro nella zona di Lodi e vicino a Padova, e la situazione degenera all’improvviso, provocando la chiusura sanitaria delle due zone dove si è manifestata l’epidemia. All’inizio sembra che si possa contenere il tutto ad un fenomeno marginale e sotto la pressione della varie polemiche inizia una  politica tranquillizzante per evitare il crollo della vita economica causata della desertificazione dei centri urbani (secondo errore fatale), ma questo finisce per rilanciare le occasioni di contagio in particolare nelle zone di Brescia e di Bergamo.

Il giorno 8 marzo il governo decide di allargare la zona in quarantena includendovi pure la città di Milano e altre popolose provincie di Piemonte ed Emilia, passando da poche migliaia a più di 12 milioni di isolati in quarantena, ma una serie di errori e di ritardi burocratici (terzo errore fatale) produce una fuga di parecchie decine di migliaia di persone dalle zone limitrofe a quelle infette verso molte altre regioni italiane, presumibilmente distribuendo il contagio a quasi tutto il resto del territorio nazionale.
In pochi giorni la situazione tecnico giuridica degenera con polemiche tra le autorità regionali (competenti per la sanità) e il governo nazionale (competente per l’ordine pubblico) e in meno di una  settimana il governo centrale decide di proclamare “zona protetta” (che il resto del mondo leggerà come “zona a rischio”) tutto il territorio nazionale di fatto non distinguendo più tra le zone del contagio iniziale e il resto del territorio (quarto errore fatale), e immediatamente si comincia a parlare di chiusura di tutte le attività economiche, subito salutata da un violento crollo della Borsa di Milano seguito in giornata da un crollo di poco inferiore della Borsa americana, a dimostrazione evidente che il problema  è diventato globale.

Infatti la vicenda italiana suscita clamore in tutto il mondo e il panico dilaga sulla rete e sui media, costringendo i governi dei vari paesi europei (che evidentemente fino ad allora avevano fatto finta di non avere contagi per non allarmare la propria popolazione) a correre ai ripari per evitare accuse di aver trascurato il problema, o forse di aver mentito al proprio popolo, e nel giro di pochi giorni la situazione in Francia e Spagna degenera con la presenza di vari focolai (anche indipendenti da quelli italiani e cinesi) che producono presto migliaia di contagiati.
Uno dopo l’altro i vari governi annunciano provvedimenti drastici di chiusura delle scuole, degli uffici e delle fabbriche e praticamente tutti i governi scoprono di essere sprovvisti di dispositivi di protezione individuale (quinto errore fatale) sia per il popolo che per il personale sanitario.

Anche quei governi che sembravano sostenitori della strategia cosiddetta della immunità di gregge, come il governo inglese e quello americano, optano improvvisamente per il “lockdown”, peraltro comunque almeno parzialmente previsto come componente iniziale anche nella strategia dell’immunità di gregge, consentendo se non altro al governo italiano di poter affermare che il comportamento italiano (in realtà ondivago e non troppo irreprensibile) viene preso d’esempio da tutti.

Nel giro di pochi giorni la Spagna supera la Cina e raggiunge l’Italia come numero di morti, improvvisamente emergono contagi di persone eccellenti in tutto il mondo, tra attori e politici e perfino teste coronate: siamo in piena pandemia, e in piena crisi di panico, incluso quello finanziario.

Gli annunciati progetti di “lockdown”, cioè la chiusura di scuole, locali, uffici ed aziende, per ridurre le possibilità di trasmissione del contagio, rendono evidente un prossimo forte rallentamento dell’economia globale, e le borse mondiali il 19 febbraio 2020 reagiscono con vari giorni di “panic selling” con il risultato finale di registrare in due settimane un crollo di circa il 30% dei listini, praticamente il doppio di quanto successo dopo il fallimento di Lehman Brothers nel 2008.

La scelta del “lockdown” per contenere la diffusione del virus, o meglio per spalmarne gli effetti al solo scopo di “guadagnare tempo” per non saturare la capacità di cura dei sistemi sanitari, peraltro allo stato attuale non foriere di una ragionevole riduzione dei decessi ma solo di una loro minore occorrenza giornaliera, presa dai vari governi occidentali sull’onda della paura e del panico popolare e sotto la minaccia di un devastante crollo del consenso e della fiducia nella classe politica e dirigente dei vari paesi, in particolare quelli esposti a consultazioni elettorali democratiche, ha però un enorme impatto sulle economie dei paesi interessati, stimato dai vari osservatori in cali del Prodotto Interno Lordo che variano, a seconda degli esperti e soprattutto a seconda della durata della chiusura delle attività economiche, tra il 10 e il 15% di quello  dell’anno precedente: da due a tre volte il danno della crisi del fallimento Lehman Brothers del 2008.

In questi giorni circolano gli annunci di piani di sostegno finanziario per le singole economie da parte dei governi più attrezzati (Stati Uniti, Germania, UK, Spagna, Francia) con importi previsti sull’ordine del 10 – 15% del PIL rispettivo, cioè interventi mai visti prima in nessun paese e in nessuna crisi finanziaria. Intanto prosegue il dibattito di come affrontare il problema sanitario, per il quale i principali paesi hanno tardivamente stanziato svariate decine di miliardi di dollari, su quanto lungo deve essere il periodo di “lockdown”, e su come si presenterà l’economia del mondo all’auspicato termine della pandemia.

Ad una osservazione più attenta, appare abbastanza evidente che la maggior parte dei paesi industrializzati aveva deciso, almeno in una fase iniziale, di affrontare il problema in maniera molto più soft, ma la scelta del governo italiano di allargare la zona a rischio dagli iniziali 12 comuni lombardi o veneti a tutto il territorio della Repubblica Italiana, e gli elevati tassi di diffusione e di apparente letalità della malattia, hanno provocato il panico nelle opinioni pubbliche di molti paesi, consigliando i loro governi ad assumere posizioni più “vicine” alle paure dei loro elettorati, in particolare negli Stati Uniti dove l’incombente campagna elettorale per le presidenziali di novembre 2020 vede come unico argomento suscettibile di una qualche possibilità di successo per un candidato democratico proprio la promessa di una riforma sanitaria che riproponga quella sanità pubblica realizzata da Obama e prontamente cancellata da Trump.

Evidentemente, una grave epidemia virale, che improbabilmente può essere affrontata da una sanità principalmente privata, potrebbe essere fatale per la rielezione del presidente Trump, che infatti con molta disinvoltura cambia posizione e si allinea al panico generale e decide anche lui per il “lockdown” promettendo soldi e intervento pubblico e un generosissimo programma di aiuti economici per la ripresa, cosa che in piena campagna elettorale costituisce una vera benedizione e un argomento che altrimenti non gli sarebbe stato permesso.

Quindi la scelta dei maggiori paesi industrializzati, di fatto condizionata o scatenata dalle decisioni italiane, e presto seguita a valanga da tutti gli altri, sia pure dettata da ragioni di opportunità elettoralistica a governi di fatto molto deboli, è stata quella di sopportare un enorme costo economico di investimenti sanitari in regime di urgenza e un abnorme costo economico in termini di riduzione del prodotto interno e di riduzione di medio lungo termine della propria dimensione economica, con i relativi problemi di disoccupazione permanente e i possibili conseguenti problemi di ordine pubblico, piuttosto che affrontare il proprio elettorato per spiegare come non fosse possibile evitare i decessi provocati dal virus, decessi che molti specialisti internazionali quantificano in un probabile 0,5% della popolazione dei paesi ricchi, mentre nessuno si esprime sulla mortalità probabile nei paesi poveri.

E visto che finora l’epidemia colpisce soprattutto le fascie molto anziane e in particolare i soggetti affetti da altre patologie gravi, e visto che la normale mortalità annua a livello dei principali paesi industrializzati occidentali è di circa lo 0,9%, è molto probabile che al termine della pandemia le vittime direttamente attribuibili alla stessa si sarebbero potute comodamente mimetizzare all’interno del tasso di mortalità generale.

Restano a oggi fuori da questa logica del “lockdown” solo alcuni paesi sviluppati come Olanda, Svezia e Messico, ai quali si aggiunge il presidente brasiliano Bolsonaro che però sembra scavalcato dal panico popolare. Se questi paesi dovessero mantenere le proprie posizioni fino alla fine della pandemia, e se i dati epidemiologici a fine pandemia dovessero dare loro ragione, la loro scelta potrebbe diventare la pietra tombale di una lunga lista di carriere politiche dei leader degli altri paesi.

Ma se si approccia il problema in termini di decisioni politiche, la mancanza di certezza sui possibili risultati, da un lato, e la probabile impossibilità di dimostrare a posteriori che la scelta non fosse quella giusta, dall’altro, rendono “politicamente” preferibile a quasi tutti i governi la scelta del “lockdown”, che più si mostra visibile ed evidente agli occhi della gente spaventata.
I risultati in termini di morti complessive, in particolare considerando la mancanza di terapie certe che possano sfruttare il rallentamento del contagio,  potrebbero al limite essere quasi gli stessi, ma la drammatizzazione della situazione generata dal blocco di per se dimostra al popolo che il governo ha fatto una scelta grave in favore della salute del suo popolo, mentre la scelta opposta, basata di fatto su una inazione, non è affatto facile da raccontare al popolo, in particolare in caso di esiti pesanti della pandemia.
Quindi si è scelto il danno economico massimo e certo, quasi a parità di perdite umane (a meno di un improbabile e tempestivo vaccino), per avere in cambio una reazione popolare sicuramente prevedibile (e gestibile). E questo soprattutto a causa della differente scelta (valutabile solo a posteriori da parte del proprio elettorato) presa da altri paesi raffrontabili per condizioni di sviluppo sociale.

Però in questo modo il mondo si troverà presto di fronte ad una crisi economica globale destinata a cambiare molti equilibri, con una recessione mai vista prima e con un probabile corollario di conflitti, sociali e non solo, che potrebbero concorrere ad aumentare di molto il numero delle perdite umane future, da sommare a quelle inevitabilmente causate dalla probabile riduzione della spesa sanitaria, di prevenzione delle catastrofi naturali, di riduzione dell’inquinamento globale, di manutenzione dei sistemi e così via.

Come per il già commentato caso del terrorismo islamico, anche in questo caso abbiamo una scelta “politica” del tutto antieconomica, resa possibile e di fatto giustificata dalle paure isteriche dell’elettorato che diventano vincolanti per una leadership politica particolarmente debole, diciamo impaurita dalle paure del suo elettorato.

Certamente al mondo sarebbe costato molto meno investire a suo tempo per acquistare qualche decina di migliaia di ventilatori polmonari da poche migliaia di euro l’uno, che malcontati per tutto il sistema occidentale non sarebbero costati più di 1 miliardo di euro. Ma questo è soltanto il senno di poi.