L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di luglio-agosto del magazine Wall Street Italia
Di Massimiliano Malandra
Trasparenza è il mantra che accompagna il percorso della direttiva Mifid 2 sin da quando venne concepita e in attesa della sua effettiva entrata in funzione il prossimo mese di gennaio. Ma trasparenza, insieme ad adeguatezza, altro termine molto in voga con la direttiva, rischiano di costituire un binomio micidiale per l’intero settore della consulenza finanziaria lato distribuzione.
L’obbligo di fornire un’informativa dettagliata in materia di costi e oneri legati ai servizi di investimento ricadrà infatti su case prodotto e distributori, che saranno così anche legati da una maggiore interazione: le prime dovranno infatti mettere a disposizione i prospetti informativi legati ai prodotti che vengono sviluppati, mentre, per quanto concerne i costi che non sono già inclusi nei Kiid, sarà il distributore stesso ad avere l’onere di calcolarli e comunicarli all’investitore finale. All’informativa sui costi sono infatti tenuti sia l’impresa che raccomanda oppure offre in vendita i servizi prestati da un’altra impresa sia quella che indirizza il cliente presso altre imprese.
Il nodo dei target market
“Tra le innovazioni che la Mifid 2 apporterà, un ruolo di primo piano è riservato alla cosiddetta product governance, vale a dire la previsione che un determinato prodotto finanziario sia, fin dalla fase della sua ideazione, strutturato per essere collocato a un determinato target di investitore, cioè un target positivo, e non ad altri, cosiddetto target negativo – spiega Roberto Lenzi, avvocato patrimonialista dello studio legale Lenzi e Associati -.
Ne deriva che tale aspetto rende maggiormente complessi i rapporti tra produttori e distributori, imponendo loro un maggior coordinamento sia a livello informativo sia gestionale e di controllo. Non potendosi più, per contro, limitarsi a semplici accordi di collocamento oppure di distribuzione”. Infatti, se fino a oggi il focus era incentrato prevalentemente tra struttura distributiva e cliente finale, con la Mifid 2 la vendita del prodotto non potrà prescindere dal necessario coinvolgimento dell’emittente.
“In altre parole, si dovrà superare un approccio basato su quello che era una pura valutazione di adeguatezza e appropriatezza effettuata dal distributore a una metodologia che tenga conto di una pre-selezione di un prodotto finanziario e della sua effettiva idoneità a soddisfare una determinata categoria di clientela – continua Lenzi – Il tutto con un consequenziale aggravio di costi, sia per il produttore sia per il distributore, sull’intero processo”.
Consulenza: come si preparano le reti
In futuro assisteremo probabilmente a una suddivisione ancora più profonda a livello di clientela. Per quanto riguarda quella servita da private banking e wealth management, un recente report di PwC vede sì alcuni rischi, ma anche qualche opportunità. Tra le implicazioni negative – per la verità condivise con altre fasce della distribuzione – la società di consulenza individua maggiori oneri di trasparenza e compliance normativa, la pressione regolamentare sugli inducement e un sicuro aumento della complessità degli accordi distributivi che dovrebbe portare come conseguenza anche a una loro riduzione in numero.
Le opportunità che invece si profilerebbero per il settore della consulenza finanziaria sono rappresentate da una parte dall’incremento delle soluzioni in grado di ridurre la complessità per le reti di distribuzione puntando a mantenere elevato il livello di remunerazione, tramite ad esempio piattaforme di collocamento e gestioni patrimoniali in fondi, e dall’altra dalla possibilità di sviluppare prodotti personalizzati per la clientela e al tempo stesso intensificare anche la propria relazione con i clienti.
Consulenza: il futuro per le reti di distribuzione
Dei vari scenari distributivi ipotizzati da PwC, questo rimane pertanto quello identificato come il “vecchio mondo”, in quanto quello più vicino alla situazione attuale del mercato. Focalizzazione sulla vendita di prodotti, con i promotori che si specializzano scegliendo la consulenza “non indipendente” e le retrocessioni che danno luogo a modelli di integrazione verticale. Insomma, la struttura di mercato rimane relativamente stabile e la trasparenza non va a incidere sulle scelte degli investitori.
Differente invece la situazione per la clientela identificata come “emancipata”: questa infatti, in modo graduale migrerebbe verso soluzioni nuove – dalle piattaforme digitali a quelle di robo advisor – a scapito quindi dei modelli tradizionali di distribuzione. Premiati in questa situazione sarebbero quindi le società di fintech e i segmenti di “execution only”” mentre si assisterebbe, almeno in questo comparto, a una compressione dei margini e a un abbassamento generalizzato dei costi.
Il terzo scenario vede infine le società di advisor che controllano il posizionamento dei prodotti, limitando il modello di architettura aperta e prediligendo un modello distributivo di prodotti a basso costo e senza retrocessioni (ad esempio ETF, prodotti indicizzati, absolute return). Le conseguenze previste, in questa situazione, sarebbero una riduzione del Ter a scapito dei produttori (verrebbero salvaguardate invece le fee del mandato di consulenza) e si assisterebbe a una crescente competizione alla ricerca dei migliori promotori bancarizzati.
Ma quale potrebbe essere lo scenario per la distribuzione finanziaria in prospettiva? “È probabile che a trarre maggiore vantaggio da questa situazione potranno essere soprattutto quelle realtà integrate ove produttore e distributore appartengano allo stesso gruppo, con minore dispersione dei margini di profittabilità dell’intero processo” ipotizza Roberto Lenzi.
E in effetti, alla luce della quantità di scambi informativi tra case prodotto e case di distribuzione richiesti dalle nuove normative, appare probabile, secondo PwC, che il modello ad architettura aperta possa subire uno stop. Le reti di distribuzione e le case di advisory si concentrerebbero cioè, stando a questo scenario, da una parte principalmente verso prodotti a basso costo ma dall’altra verso le case prodotto maggiori, in grado di meglio assorbire l’impatto dei costi indotti dalle nuove direttive.
Una situazione che tuttavia si sta rilevando anche a livello di reti: in pratica, l’elevata qualità dei servizi offerti oggi dall’industria delle reti impone un livello di costi che necessitano di asset adeguati per garantirne nel tempo la sostenibilità. Da questo punto di vista, del resto, il fenomeno già si rileva anche a livello di distribuzione e da qualche tempo comporta una concentrazione degli operatori. Come evidenzia una ricerca di Assoreti, il 44% del campione di società oggetto dell’analisi è costituito da intermediari con portafogli superiori ai 20 miliardi di euro, mentre nel 2012 erano solo il 29%. Attualmente, quattro società hanno patrimoni che superano i 50 miliardi di euro mentre le prime cinque reti detengono il 71,4% del patrimonio complessivo, pari a 485 miliardi di euro.
A livello organizzativo, tuttavia, lo scenario prospettato dagli analisti di PwC potrebbe essere duplice. Il punto di partenza è rappresentato dal modello classico attuale, che prevede la banca agire in qualità di distributore e la Sgr come casa prodotto con in capo gestione del portafoglio e gestione collettiva, potrebbe essere un doppio. L’evoluzione potrebbe invece avvenire verso uno schema secondo il quale alla Sgr, che continuerebbe ad agire come casa prodotto, farebbe ancora capo la gestione collettiva, mentre la banca agirebbe ancora come distributore, ma assumendo su di sé la parte di gestione di portafoglio: un’attività per la quale potrebbe sviluppare internamente le competenze necessarie o in alternativa creare un polo specializzato e dedicato.