Economia

CAPITALISMO SENZA CAPITALISTI? DIBATTITO SUL SOLE

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(9Colonne) – Roma, 19 apr – “Nel Paese mancano le condizioni per rischiare”, afferma Giorgio Fossa, presidente di Confindustria dal ’96 al 2000. “Sui mercati internazionali non serve l’aiuto politico”, osserva il suo predecessore Luigi Abete, numero uno di viale dell’Astronomia dal ’92 al ’96. Prosegue sul Sole 24 Ore il dibattito tra i grandi industriali, reso ancor più attuale dai commenti rilasciati ieri da Fausto Bertinotti: “La vicenda Telecom ci dice quanto il capitalismo italiano sia devastato”, aveva detto il presidente della Camera. Due le tesi messe a confronto dal quotidiano economico: da una parte quella di Cesare Romiti, secondo cui la crisi del capitalismo italiano è quella dei capitalisti che “non rischiano più, e quelli bravi preferiscono ritirarsi nei loro settori perché hanno paura di dover scendere a compromessi sulla politica”, dall’altra quella di Vittorio Merloni, secondo cui “c’è chi si batte sul mercato aperto con le armi dell’innovazione e della qualità: c’è invece chi si preoccupa, con il sostegno della politica e delle banche, di procurarsi e di proteggere posizioni di rendita, in particolare nel mondo delle infrastrutture e dei servizi e, in passato, anche dell’industria”. Sull’onda del botta e risposta tra il presidente di Impregilo e quello di Indesit il Sole ha raccolto i commenti di Fossa e Abete. Il primo crede che ci si debba interrogare sul perché gli imprenditori siano pochi. “Se si rischia poco – sostiene Fossa – ciò accade perché non esistono le condizioni per rischiare. Non si premia chi crea lavoro, ma chi costruisce cattedrali nel deserto. Lo si faceva una volta, si continua a farlo adesso”. Fossa denuncia la mancanza di regole, che ha accompagnato la vicenda Telecom e sottolinea come governi sia di destra che di sinistra abbiano “solo creato problemi alle imprese scoraggiando l’imprenditoria”. “La burocrazia – accusa Fossa – le uccide, mancano servizi veri alle imprese, mancano lavoratori, almeno quelli ben informati. Rischiamo di diventare un Paese appeso, anche perché se fallisce l’industria non abbiamo come l’Inghilterra una grande struttura finanziaria che supporti l’economia”. Dà ragione invece a Vittorio Merloni Luigi Abete, che afferma: “Fa capire quello che sanno tutti ma che è giusto ricordare, cioè che in Italia, a metà degli anni ’80, si erano create le condizioni per la modernizzazione del Paese ma prevalse il compromesso tra grande industria, grande finanza e politica con tutto quel che ne è seguito. Questo – sottolinea Abete – per dire che il successo imprenditoriale si basa sempre sull’autonomia reale della politica mentre i compromessi possono, al più, portare al galleggiamento”. Non c’è più il gusto del rischio? “Proprio il successo su tutti i mercati delle medie imprese dimostra il contrario”, conclude Abete.