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Argentina ritorna sui mercati: è un successo

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NEW YORK (WSI) – Il ritorno sui mercati internazionali dell’Argentina dopo 15 anni di “esilio forzato” è stato un successo. Mentre l’altra grande potenza sudamericana, il Brasile, è alle prese con una grave crisi politica ed economica, Buenos Aires ha collocato sul mercato bond, ottenendo 15 miliardi di dollari di prestiti con le offerte che hanno superato i 65 miliardi di dollari.

L’Argentina non emetteva titoli di Stato da quando nel 2001 le finanze pubbliche hanno fatto crac, scatenando un default mastodontico su 100 miliardi di debito. In un contesto di tassi bassi e di caccia ai rendimenti il debito argentino ha evidentemente attirato l’attenzione, potendo esso offrire un ritorno da investimento interessante per molti investitori, anche istituzionali.

Il rendimento del nuovo titolo decennale si è attestato al 7,5-7,625%, sotto i livelli previsti, con i bond a breve scadenza (tre e cinque anni) che hanno invece mostrato un tasso del 6,4% e 7%, rispettivamente. Il titolo a trent’anni dovrebbe garantire un rendimento dell’8%.

La portata dell’emissione argentina e il lungo tempo trascorso fuori dai mercati è unica nel suo genere. Paesi come la Costa d’Avorio, l’Ecuador e la Grecia sono rimasti diversi anni senza poter collocare obbligazioni sul primario, ma nemmeno Atene – che è tornata sul mercato nel 2014 dopo la ristrutturazione del debito più grande della storia, ha piazzato una cifra paragonabile. I titoli ellenici emessi due anni fa hanno consentito al governo Syriza di reperire 3 miliardi, un quinto di quanto raccolto dall’Argentina.

Nel frattempo il Brasile, che fino a soli dieci anni fa era un modello esemplare per tutto il mondo, si trova impantanato nella crisi economica più grave dagli Anni Trenta. Una ripresa fondata sopratutto sulle materie prime ha permesso a milioni di brasiliani di uscire dalla povertà, ma ora restano solo gli scandali legati all’uso di tangenti e di denaro sporco. Pare che i soldi delle banche statali siano stati usati dal governo per coprire buchi di bilancio.

Fonte principale: Financial Times