Società

Caos governo, Savona: “Strappo istituzionale? Mi dispiace”

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“Mi dispiace”. Il professor Paolo Savona, divenuto simbolo della battaglia fra Lega-M5s e Quirinale, non vuole ancora esporsi mediaticamente, nonostante la sua nomina al ministero dell’Economia sia definitivamente tramontata domenica scorsa. Raggiunto dai microfoni del Corriere della Sera, l’economista sardo cerca di svicolare, manifestando il dispiacere per un conflitto istituzionale dai contorni quantomeno controversi.

Luigi Di Maio e Matteo Salvini, nelle ultime ore, non hanno risparmiato attacchi diretti al Capo dello Stato, reo di aver forzato la mano sulla scelta del ministro dell’Economia, chiamando in causa la protezione dei risparmiatori italiani minacciati dalla possibile uscita dall’euro.

Savona, al contrario, resta ai margini del conflitto politico-istituzionale, dicendosi dispiaciuto e, citando Sant’Agostino, per rivendicare il suo no comment: “Sant’Agostino diceva che di parlare mi sono qualche volta pentito, di stare zitto mai”. La convinzione di Savona è quella di aver “fatto e detto tutto quello che era necessario“.

Fra le prese di posizione ritenute evidentemente “non necessarie” dal professore si potrebbe dunque inserire la mancata presa di distanza dai “piani b” di uscita dall’euro espressi in diverse occasioni passate. L’economista aveva dichiarato, infatti, di non essere disposto a “cambiare pensiero per una poltrona“.

Nel frattempo si è fatta strada l’ipotesi che l’inflessibilità dei partiti sulla sua nomina fosse, in realtà, una strategia per arrivare alla rottura col Quirinale e sollevarsi dal peso di governare con un programma difficilmente realizzabile. E’ l’opinione di alcuni commentatori, e, soprattutto, la posizione espressa da Matteo Renzi nelle ultime ore.

Dall’altra parte della barricata, Lega e M5s ritengono che il veto sulle idee politiche non rientri nelle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, che sarebbe andato oltre i suoi poteri: responsabile del governo è, infatti il premier, di fronte al parlamento. Fatto che renderebbe, secondo una certa linea interpretativa, la nomina dei ministri un atto pressoché formale da parte del Capo dello Stato.