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Dopo la crisi, in Europa torna a crescere povertà

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Dall’inizio della crisi economica del 2008 al 2014 la quota di popolazione a rischio di povertà nell’Unione Europea è tornata a crescere, dal 16,5% al 17,2%; una tendenza visibile anche in altre economie sviluppate come quella statunitense (la cui quota è passata dal 23,8% del 2005 al 24,6% del 2014) o quella giapponese (dal 21,7% del 2005 al 22,1% del 2012). Sono alcuni dei dati contenuti nell’ultimo rapporto “World employment social outlook” (Weso), pubblicato dall’Organizzazione internazionale del lavoro.

Nella maggioranza delle altre economie in via di sviluppo la tendenza negli ultimi anni è stata quella opposta: la fetta di popolazione in estrema povertà, o in stato di povertà “moderata” è scesa, considerando il periodo compreso fra il 2005 e il 2012, l’ultimo disponibile per effettuare confronti. Ciononostante, comunica l’Organizzazione, “per eradicare la povertà estrema e moderata in tutto il mondo entro il 2030,sarebbero necessari circa 600 miliardi di dollari l’anno, ossia quasi 10mila miliardi di dollari in 15 anni. Il problema della persistenza della povertà non può solo essere risolto  con trasferimenti di reddito servono più posti di lavoro e di migliore qualità”.

“L’obiettivo di sviluppo che verte sulla fine alla povertà in tutte le sue forme entro il 2030 è a rischio”, ha detto il direttore generale dell’Organizzazione, Guy Ryder. “Se si prende seriamente l’Agenda 2030 e s’intende porre fine alla povertà che si perpetua tra generazioni, allora ci si deve focalizzare sulla qualità dei lavoro in tutte le nazioni”.

Un altro aspetto interessante sottolineato dal rapporto è quello sulla qualità della crescita economica e sui fattori che la determinano: ognuno di essi ha ripercussioni diverse sul miglioramento delle condizioni di povertà. Il Wes mostra che la crescita innescata dagli investimenti, in particolare quelli pubblici in infrastrutture, richiedendo più lavoro, contribuiscono maggiormente alla riduzione della povertà. La crescita correlata all’aumento del commercio internazionale, invece, ha effetti che variano molto dal tipo di merce scambiata: nel caso di economie che esportano soprattutto materie prime “si sono osservati i miglioramenti più piccoli nella riduzione della povertà”. Il discorso cambia nel caso i beni esportati siano prodotti manifatturieri.

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Questo genere di relazioni fra crescita e miglioramento dei livelli di povertà si uniscono alla precarietà dei lavori che, quando le condizioni economiche cambiano corso, portano a una decisa regressione dei progressi sociali. Ad esempio:

“Il recente deterioramento delle prospettive economiche in Asia, in America latina, nella regione araba e nei paesi ricchi in risorse naturali ha iniziato a rivelare quanto fragili siano i progressi occupazionali e sociali conseguiti”, scrive l’Organizzazione, “in alcuni di questi paesi, le disparità di reddito hanno iniziato a aumentare dopo essere diminuite per decenni, facendo pesare un potenziale rischio sul progresso nella riduzione della povertà”.