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Moody’s taglia il rating degli Stati Uniti: timori sul debito, mercati in allerta

Moody’s ha declassato il rating del debito sovrano degli Stati Uniti da Aaa ad Aa1, ponendo fine a oltre un secolo di ininterrotta permanenza della prima economia mondiale nel ristretto club dei debitori a tripla A. È un passaggio simbolico e sostanziale: si tratta infatti  la prima volta nella storia che gli Stati Uniti non hanno un rating di credito tripla A da almeno una delle tre principali agenzie. Con questa decisione Moody’s si allinea a Fitch e S&P, che avevano già retrocesso il giudizio sul debito statunitense rispettivamente nel 2023 e nel lontano 2011.

Le cause della bocciatura

Alla base della storica bocciatura vi sono i crescenti timori sul debito pubblico americano, che ha toccato i 37mila miliardi di dollari, pari al 124% del PIL, e del crescente deficit di bilancio della più grande economia del mondo. Le nuove misure fiscali proposte dall’amministrazione Trump, secondo l’agenzia, rischiano di aggravare ulteriormente la posizione finanziaria del Paese.

“Un deterioramento più rapido e significativo dei saldi di bilancio o un allontanamento degli investitori globali dal dollaro come valuta di riserva potrebbero avere un impatto molto negativo e causare un aumento dei tassi di interesse, che aumenterebbe il costo del debito”, ha avvertito Moody’s.

Il peso dei tagli fiscali

La valutazione dell’agenzia arriva mentre il Congresso è immerso in un acceso dibattito sul cosiddetto “Big Beautiful Bill”, un pacchetto di misure fiscali voluto da Trump che prevede la proroga dei tagli fiscali del 2017, accompagnati da tagli alla spesa sanitaria, ambientale e sociale.

Un proposta bloccata in commissione Bilancio della Camera da cinque deputati repubblicani, preoccupati per un incremento del deficit stimato in oltre 3.300 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni.

Secondo gli analisti di Moody’s, è improbabile che le proposte fiscali attualmente sul tavolo riescano a contenere in modo duraturo i disavanzi pubblici. L’agenzia stima che il rapporto debito/PIL possa salire dal 98% del 2024 al 134% nel 2035. Una traiettoria giudicata insostenibile.

I mercati osservano con preoccupazione

Il recente declassamento del rating del debito sovrano statunitense da parte di Moody’s ha intanto riacceso le tensioni a Wall Street. Gli investitori, già in allerta per l’impennata dei rendimenti, iniziano ora a scontare anche un rischio strutturale: quello della sostenibilità a lungo termine del debito pubblico USA

Gli effetti del downgrade si stanno già riflettendo nei mercati obbligazionari. Il rendimento del Treasury decennale è salito dal 4,2% al 4,5% nelle ultime settimane, come segnalato dal Committee for a Responsible Federal Budget, a testimonianza dell’aumento della percezione del rischio da parte degli investitori.

Secondo diversi osservatori, il mercato obbligazionario guarda con crescente attenzione all’evoluzione del quadro politico e fiscale a Washington. Con il downgrade di Moody’s, si teme un ulteriore irrigidimento della posizione degli investitori, che potrebbero adottare un atteggiamento ancora più prudente.

Altri esperti segnalano che la decisione potrebbe tradursi in un incremento dei costi di finanziamento, sia per il settore pubblico che per quello privato, aggravando così la pressione sui bilanci nazionali e aziendali.

Pur non comportando vendite forzate da parte dei fondi obbligazionari – molti dei quali hanno rivisto i propri mandati dopo il declassamento operato da S&P nel 2011 – l’attenzione degli investitori sembra ora concentrarsi sempre più sulla tenuta dei conti pubblici nel lungo periodo.

“Moody’s non ci sta dicendo nulla di nuovo – ha spiegato l’agenzia Reuters Dan Greenhaus, chief market strategist di Solus Alternative Asset Management LP – gli Stati Uniti stanno gestendo un deficit di bilancio gigantesco, in tempo di pace, come mai si era visto in tutta la nostra vita, ma questo lo sappiamo tutti”.

Anche Dave Mazza, amministratore delegato di Roundhill Investments, ha spiegato che anche se Moody’s ha finalmente ufficializzato la notizia, è probabile che i mercati abbiano visto da tempo una diminuzione del profilo creditizio degli Stati Uniti. A suo giudizio, “a differenza dello shock provocato dal declassamento di S&P nell’agosto del 2011, questa decisione arriva in un contesto di mercato già segnato dalla sfiducia verso le disfunzioni fiscali e il rischio tariffario, il che significa che l’impatto sulle azioni potrebbe essere più contenuto rispetto a quanto lascerebbero intendere i titoli dei giornali”.

Per Mark Haefele, Chief Investment Officer di UBS Global Wealth Management, la bocciatura di Moody’s è una decisione che non dovrebbe sorprendere e che difficilmente porterà a vendite significative di titoli di Stato statunitensi. L’esperto osserva inoltre che negli Stati Uniti, i declassamenti del credito tendono ad avere un impatto politico inferiore rispetto a quanto comunemente si creda, mentre gli investitori azionari appaiono attualmente concentrati su altri temi.

Nel complesso, questa revisione del rating viene interpretata più come un elemento di disturbo mediatico che come un cambiamento strutturale per i mercati. In caso di un aumento disordinato o insostenibile dei rendimenti obbligazionari, ci si aspetta che la Federal Reserve sia pronta a intervenire. Pertanto, pur rappresentando un fattore che potrebbe frenare parzialmente il recente slancio positivo, il downgrade non dovrebbe avere un impatto diretto significativo sui mercati finanziari.

La reazione della Casa Bianca

La Casa Bianca ha liquidato la decisione di Moody’s come un attacco di natura politica. Harrison Fields, portavoce presidenziale, ha respinto le preoccupazioni con fermezza: “Gli analisti si sono già sbagliati in passato, anche sui dazi, che hanno portato investimenti record, occupazione ai massimi e nessuna pressione inflazionistica”, ha dichiarato a Reuters.

Il direttore della comunicazione Steven Cheung ha rincarato la dose, prendendosela con Mark Zandi, capo economista di Moody’s Analytics, definito un avversario politico del presidente. Ma il tentativo di delegittimare la fonte è apparso fragile: come ha evidenziato il Financial Times, Zandi non ha contribuito al rapporto sul rating e lavora per un’entità distinta – Moody’s Analytics – che non si occupa di assegnare valutazioni sovrane.

Al contrario di quanto sostenuto dalla Casa Bianca, il taglio del rating è stato preso molto sul serio dagli operatori di mercato, che lo interpretano come un chiaro segnale d’allarme sulla sostenibilità fiscale degli Stati Uniti.

Prospettive incerte

Il futuro del piano fiscale resta incerto, anche per le crescenti tensioni interne al Partito Repubblicano. Le divisioni su come e dove applicare i tagli alla spesa sono ancora forti, soprattutto dopo che Trump ha ribadito la volontà di non toccare i programmi di welfare obbligatori, che rappresentano la maggior parte della spesa pubblica.

Nel frattempo, si avvicinano due scadenze cruciali: il presidente della Camera Mike Johnson punta ad approvare la legge prima del Memorial Day del 26 maggio, mentre il segretario al Tesoro Scott Bessent ha chiesto al Congresso di alzare il tetto al debito federale entro metà luglio. Senza un accordo, gli Stati Uniti rischiano di trovarsi in una situazione di illiquidità già ad agosto, come indicano anche i rendimenti più elevati dei Treasury bill con scadenza in quel mese.