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MERCATI, SIAMO ALLA ROTTURA DEGLI EQUILIBRI?

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(WSI) – Di questi tempi si ha la sensazione di essere prossimi ad un punto di svolta della situazione di un’economia mondiale schiacciata dall’impennata del prezzo del petrolio e delle altre materie prime e afflitta dalla crisi di un sistema bancario che deve ancora smaltire centinaia di miliardi di dollari di perdite originate nell’enorme bolla del credito creata negli ultimi anni.

La rottura degli instabili equilibri degli ultimi mesi è stata causata dall’impennata del greggio. Il prezzo del petrolio, che oggi sfiora i 140 dollari il barile, ha inferto da un canto un colpo micidiale ai redditi delle famiglie e dall’altro ha spinto al rialzo i prezzi facendo tornare la paura dell’inflazione.

Le autorità monetarie si trovano a dover fronteggiare due pericoli apparentemente incompatibili e che necessitano di risposte opposte: una politica monetaria espansiva per scongiurare il timore di una recessione, per risollevare il mercato immobiliare statunitense e per dare fiato ad un sistema bancario a corto di ossigeno, da un canto; dall’altro una politica monetaria restrittiva per frenare un tasso di rincaro che sta subendo un’accelerazione sia nei paesi di vecchia industrializzazione sia soprattutto nei paesi emergenti.

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La lettura di queste tendenze apparentemente contraddittorie non è univoca. Da una parte vi sono la banca centrale statunitense (che ieri sera ha deciso di mantenere inalterati i tassi di interesse), la Banca Nazionale Svizzera e la stragrande maggioranza degli analisti che ritengono il rialzo dell’inflazione un fenomeno temporaneo. In buona sostanza, giudicano l’attuale tensione dei prezzi al consumo un esempio di inflazione da costi, determinata dall’aumento dei prezzi dei beni energetici e di quelli alimentari, che rientrerà non appena questi prezzi si stabilizzeranno o addirittura scenderanno. Per costoro, fino a quando il rincaro non ingenererà un meccanismo di rincorsa tra prezzi e salari, l’inflazione non è preoccupante e non deve essere combattuta con l’aumento del costo del denaro.

Dall’altra parte vi è la Banca centrale europea, che ha già annunciato che il prossimo 3 luglio alzerà di un quarto di punto i tassi di Eurolandia, portandoli al 4,25%. Per la Bce bisogna agire subito prima che nella popolazione e tra gli operatori economici si diffondano crescenti aspettative inflazionistiche. In altri termini, alzando i tassi oggi, secondo la Bce, si evita di doverli alzare ancor di più domani per combattere un’inflazione che è sfuggita di mano.

L’apparente diversità dei modi di vedere delle banche centrali è in realtà determinata da un aspetto che le banche centrali preferiscono trattare solo di sfuggita, ossia la crisi del sistema bancario. La Federal Reserve è perfettamente consapevole che la sua politica monetaria fortemente espansiva finora è servita a ben poco. Infatti i prezzi delle case negli Stati Uniti continuano a calare, i tassi ipotecari rimangono a livelli molto alti a causa della crisi bancaria (nonostante i tassi a breve siano stati portati al 2%) e la crisi del sistema finanziario appare alla vigilia di una nuova fase di forte turbolenza.

E’ invece certo che la politica monetaria della Fed ha provocato danni: ha contribuito al rialzo dei prezzi del greggio e delle altre materie prime e ha rinfocolato le aspettative inflazionistiche. D’altro canto, il taglio del costo del denaro e le iniezioni di centinaia e centinaia di miliardi di dollari hanno dato solo una temporanea boccata di ossigeno al sistema bancario, la cui crisi può essere superata solo attraverso la nazionalizzazione degli istituti decotti e/o attraverso ricapitalizzazioni sottoscritte dagli Stati.

Lo spazio per continuare in questi giochi di prestigio si sta dunque esaurendo. Il secondo trimestre di quest’anno segnerà molto probabilmente l’inizio di una lunga recessione negli Stati Uniti, che non frenerà la tendenza all’aumento dei prezzi al consumo, ma che anzi coinciderà con un aumento dell’inflazione e con un peggioramento delle condizioni di salute del sistema finanziario, rendendo impotente la politica monetaria. Per questi motivi è probabile che la cosiddetta crisi dei mutui subprime sia prossima ad un punto di svolta, ossia ad un forte peggioramento delle condizioni dell’economia reale.

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