Editoriali

L’Italia del risparmio e dell’impresa

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Articolo 47. La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.


 

In Francia si chiamano PEA (Plan d’Epargne en Actions, piani d’investimento in azioni) e sono nati addirittura nel 1992. Da allora ben più di120 mld di euro sono stati trasferiti dai risparmiatori francesi verso le imprese transalpine. Non è un caso che la Borsa di Parigi sia cresciuta tanto in termini di capitalizzazione, come non è un caso che le aziende francesi siano state tra le principali protagoniste nello shopping di aziende di casa nostra. 
In Canada i Tax Free Saving Accounts (TFSA, conti di risparmio esenti da prelievo fiscale) sono stati adottati nel 2009. Anche in questo caso la raccolta è stata straordinaria: ben 150 mld di dollari sono affluiti verso le casse delle imprese nordamericane. E poi il Giappone. Qui la storia è più recente: i NISA (Nippon Individual Saving Account) sono nati solo, si fa per dire, nel 2014. Ma anche in questo caso i risultati sono stati notevoli: in meno di 5 anni sono stati raccolti ben 80 mld di yen. 



E in Italia?

Da noi invece di finanziarle, con parte del risparmio interno, abbiamo trasformato le imprese in fonti di reddito per l’erario e dopo le imprese anche il risparmio stesso. Entrambi, risparmi e imprese si sono trasformati in un sorta di bancomat a disposizione dello Stato. Gli effetti di questa miopia? Con la crisi i fallimenti sono esplosi e sono cresciuti repentinamente i crediti deteriorati. Con la crescita delle sofferenze le nostre banche sono andate in crisi ed il circolo vizioso del sistema banco-centrico ha mostrato tutti i propri limiti. I risparmi hanno perso forme alternative di remunerazione ed oggi un terzo della ricchezza nazionale è ferma ed immobile sui conti correnti. E poi le imprese: si sono allontanate dai mercati azionari e questo ha creato un effetto diseducativo sui capitani d’azienda. Lontano dai mercati dei capitali, le aziende italiane, straordinarie in tanti ambiti, hanno perso in preparazione, competenze, capacità organizzativa e competitività.

Nel Regno Unito i numeri degli ISA (Individual Saving Accounts) sono davvero straordinari. Nati nel 1999, gli ISA hanno raggiunto quasi il 75% della popolazione inglese, molto più di quanto non abbiano fatto da noi i libretti di risparmio in passato. Ma quello che fa davvero impressione è il «monte risparmi» trasferito in investimenti interni: 630 mld di sterline. Capite adesso perché Londra sia diventata la prima piazza finanziaria d’Europa e una delle più importanti al mondo.

Per questo Borsa italiana è stata acquistata dal London Stocks Exchange e non il contrario. I numeri parlano di un successo straordinario. Il mercato AIM, quello che rappresenta la porta d’accesso per le piccole aziende al mondo della finanza londinese, dal lancio degli ISA ha registrato oltre 3.700 quotazioni. Perfino alcune catene di pub inglesi hanno deciso di quotarsi. Di quelle 3.700 aziende molte sono scomparse, altre si sono fuse o sono state incorporate in altre aziende, altre ancora sono cresciute talmente tanto da essere ammesse agli indici superiori della Borsa inglese. Oggi sull’AIM ne restano un migliaio. Nel nostro Paese la filiera manifatturiera è certamente migliore di quella che vive e prolifera all’ombra della “Union Jack”, è più importante, per varietà e qualità dei prodotti realizzati, eppure le aziende quotate a Piazza Affari sono poco più di 330. Per dare una risposta a tutto questo torniamo all’articolo della costituzione italiana con cui abbiamo aperto questo pezzo. In particolare torniamo alla frase conclusiva che dice…

(Lo Stato…) Favorisce l’accesso del risparmio popolare… al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese…



Quando è mai accaduto?

Che lo stato abbia favorito l’accesso del risparmio al diretto ed indiretto investimento azionario… C’è stata e c’è ancora una sorta di “concorrenza sleale” tra lo Stato e le imprese italiane. In passato l’investimento in borsa è stato demonizzato largamente ed ancora oggi una tassazione ingiustamente iniqua fa pagare il 12,50% sulle plusvalenze generate da investimenti in titoli di stato, contro il 26% di chi ha comprato titoli o fondi di investimento. 
Il nostro, è l’unico Paese dove all’investimento in borsa viene associata la parola “Gioco” e, credetemi, le parole hanno un potere speciale. Indirizzano scelte, vite, percorsi… Tutto questo scarso attaccamento ai mercati azionari ha guidato sia le scelte degli imprenditori che quelle dei risparmiatori. 
I primi devono ritrovare una forza ed un entusiasmo che permetterà loro di superare una crisi, che per il nostro Paese sta pesando più per la “lunghezza” che per l’intensità, i secondi, i risparmiatori devono trovare strada alternative al “povero estinto” titolo di stato. Saranno proprio gli investimenti azionari, rigorosamente diversificati, a fornire ai loro sottoscrittori plusvalenze utili a cambiare le vite di domani. Ma per farlo ci vuole cultura. Non bisogna avventurarsi, in nessun modo. Tempi migliori arriveranno. Gli imprenditori grazie a progetti come “ELITE” di Borsa Italiana stanno lavorando sulle proprie competenze per proiettarsi nella complessità di un mondo che non decelera e che non aspetta. Crescono di competenza gli imprenditori, crescono di conseguenza anche i risparmiatori, che avranno finalmente la loro nuova occasione, per rilanciare la crescita dei loro capitali. Il miracolo accadrà quando da risparmiatori, da semplici e puri risparmiatori, si diventerà investitori e, ancora meglio, pianificatori. Ma la strada è lunga… Purtroppo.