Società

L’età del nervosismo

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news
*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR. ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

Milano – Joachim Radkau è uno storico tedesco che da trent’anni studia la storia degli stati d’animo delle masse e delle élites del suo paese nei confronti della modernità. In particolare, Radkau si è occupato dell’ondeggiare della psiche tedesca tra la nostalgia della natura (da difendere strenuamente in quanto vissuta come simbolo dell’innocenza perduta) e l’idolatria della tecnica, strumento della volontà di potenza.

La fase in cui questo ondeggiare ha prodotto la lacerazione nevrotica più intensa è stata quella guglielmina, a cavallo tra Ottocento e Novecento. È un periodo in cui coesistono faticosamente i valori della tradizione, difesi da un apparato statale tardofeudale, e quelli di una borghesia irrequieta che cerca di darsi un’identità culturale proiettandosi nella modernità.

L’Età del Nervosismo è il titolo, molto significativo, di un libro che Radkau ha dedicato a quest’epoca. Non solo il mondo tedesco, del resto, ma l’intera Europa di allora ci appare oggi febbricitante. Le élites si danno all’esoterismo, alla psicanalisi, alla cocaina. Isteria, nevrastenia e pulsioni autodistruttive sono malattie dello spirito diffuse non solo tra gli artisti, ma anche tra personalità politiche e culturali. Max Weber, grande sacerdote e cantore dell’implacabile razionalità borghese e capitalista, si lascia affascinare da ogni forma di New Age dell’epoca e passa lunghi anni entrando e uscendo da un esaurimento nervoso. Keynes, parte integrante dell’estremamente inquieto circolo di Bloomsbury, vive in modo meno lacerante di Weber il conflitto tra razionalità e irrazionalità, ma solo perché incorpora consapevolmente entrambe nel suo sistema.

Rispetto a quell’epoca il mondo di oggi appare sedato e culturalmente piatto e opaco. In alcune sfere della vita pubblica, tuttavia, si nota in modo sempre più evidente un tasso crescente di inquietudine. La Grande Recessione ha dato avvio a questo processo ma è l’Europa, ancora una volta, a mandare in circolo in tutto il mondo le tossine della sua crisi.
Tra gli operatori economici e nei mercati la situazione di nervosismo è evidente. Le imprese americane e giapponesi (in Europa il fenomeno è meno evidente) sono liquide come non sono mai state perché hanno paura di tutto. Le banche europee non prestano soldi alle imprese e parcheggiano a tasso zero presso la Bce gran parte della liquidità che la Bce stessa ha messo a loro disposizione.

Quanto ai mercati, Christopher Cole nota giustamente che, benché ci sia mediamente poco rischio nei portafogli, questo rischio è sistematicamente protetto. Se tutti si assicurano contro un ribasso azionario con opzioni, nota Cole, le possibilità di un ribasso devastante diminuiscono. La volatilità realizzata, del resto, è bassa, almeno se si guarda alla borsa americana. Ciò nonostante le put lontane, quelle che vengono comprate per proteggersi da ribassi pesanti o addirittura rovinosi, sono molto ricercate (e quindi costose).

In pratica ci sembra che il mercato viva in due dimensioni psicologiche. Nella prima si sente come un bambino circondato dalla protezione delle banche centrali. In questo stato oscilla dolcemente e vive una quotidianità leggermente euforica che lo porta addirittura a sopravvalutare, qua e là, qualche asset di rischio.
Nella seconda dimensione il bambino intuisce con orrore che la rete di protezione delle banche centrali potrebbe anche rompersi. Questa sensazione lo mette in uno stato d’ansia permanente.

In America parlare di incertezza significa da due anni che si è repubblicani. C’è un modo codificato di esprimersi per cui se si parla di insufficiente domanda aggregata per spiegare la crisi si è democratici, se si parla di incertezza si è contro Obama. Il presidente, dicono i suoi avversari, crea uno stato d’ansia diffuso, parla continuamente di alzare le tasse, produce (insieme al Congresso) regole sempre più complicate e incomprensibili e si mostra ostile alle imprese, che lo ricambiano investendo e assumendo il meno possibile.

In realtà, senza volere per forza dare ragione ai repubblicani (nel mondo c’è anche un’evidente carenza di domanda aggregata), il tema dell’incertezza è serio e ha portata globale. Olivier Blanchard gli dedica tutta la sua prefazione al rapporto semestrale del Fondo Monetario e ha in mente, molto più che l’America, la sua Europa.

L’Europa continua a fare tutto a metà. Salva la Grecia una, due, tre volte ma sempre con il braccio corto. Decide l’unione bancaria per salvare le banche spagnole (e non solo) ma si divide immediatamente su come realizzarla. Vara l’ambizioso programma di acquisto di titoli italiani e spagnoli ma Italia e Spagna tergiversano e la Germania è ben contenta del rinvio. La strategia della Merkel di tenere sempre tutti sulla corda funziona in termini di consenso interno tedesco, ma fa pagare un prezzo alto non solo all’Europa ma al mondo intero.

In America molti stanno vendendo in borsa perché preoccupati dalle nuove aliquote su dividendi e capital gain che scatteranno automaticamente se non si raggiungerà un accordo in Congresso dopo le elezioni. Molto del rialzo degli ultimi mesi era stato trainato dai titoli con alto dividendo e la nuova temutissima aliquota li potrebbe penalizzare.
C’è poi, naturalmente, l’incertezza sull’assetto politico generale dell’America per i prossimi quattro anni. Non solo Romney si è riavvicinato nei sondaggi a Obama, ma anche per i due rami del Congresso non ci sono previsioni sicure.

In questo momento, in ogni caso, c’è più incertezza sul breve termine, il fiscal cliff, che sul medio. I due candidati hanno programmi diversi, ma l’effetto netto sulla crescita di lungo termine è difficile da valutare. Obama aumenterebbe il carico fiscale, ma continuerebbe a esercitare sulla Fed una forte pressione per una politica monetaria ultraespansiva. Romney abbasserebbe le aliquote ma metterebbe un tetto massimo alle detrazioni, con un effetto netto neutrale, ma eserciterebbe meno pressioni sulla Fed. Romney ha poi un programma aggressivo sul lato dell’offerta, in particolare sull’energia. Dando libertà di estrazione a tutti creerebbe molti posti di lavoro e ridurrebbe il costo interno delle fonti energetiche.

Sul fiscal cliff, invece, non si sa nulla. Un gruppo bipartisan di deputati centristi si è messo al lavoro per trovare una soluzione, ma il potente senatore Schumer li ha immediatamente scomunicati. La crescita, nel frattempo, rimane debole ovunque anche se in America i dati, che per parecchie settimane sono stati costantemente deludenti, cominciano a essere quanto meno contrastati. La ripresa dell’occupazione, che nella clima politico surriscaldato qualcuno ha voluto definire un falso statistico, è in parte reale, in parte dovuta a fattori di stagionalizzazione che nei mesi precedenti avevano giocato contro e in parte è dovuta ad assunzioni da parte del governo. Le assunzioni in vista delle elezioni non sono solo un fenomeno mediterraneo.

Muoversi nei mercati, nei prossimi tre mesi, non sarà per niente facile. In un clima di nuovo negativo qualche buona sorpresa sugli utili, su cui le attese sono basse, potrebbe ridare lustro alle borse. Ancora più forte sarebbe l’effetto positivo di una richiesta ufficiale spagnola di aiuto alla Bce. Se in America dovesse vincere Romney la reazione di Wall Street sarebbe positiva, anche se di breve durata.

Fare previsioni in questo contesto è molto al di là delle nostre capacità, ma una considerazione di fondo rimane valida. Su debolezza conviene comprare. Il temuto aumento delle tasse non sarà, alla fine, così pesante come si teme. Se i dividendi verranno tassati molto, le società ne distribuiranno meno e faranno più ricorso all’acquisto di azioni proprie, che genera per l’azionista (a parità di altre condizioni) un capital gain aggiuntivo che rimarra tassato in modo ragionevole. Se in Europa gli spread torneranno a salire, la Spagna chiederà aiuto e il programma della Bce potrà finalmente partire. In sintesi, non è vero che la regola di non combattere contro le banche funziona sempre. È però vero che funziona quasi sempre.

Copyright © Kairos Partners SGR. All rights reserved