Società

Ilva chiude, a rischio 20.000 posti in tutta Italia. Pericolo ordine pubblico

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Roma – “Il rischio c’è ed è anche notevole”. Lo ha detto il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, in merito a possibili rischi di ordine pubblico sulla vicenda dell’Ilva di Taranto. “Conto molto sul senso di responsabilità di tutti”, ha continuato Cancellieri.

Il capo del Viminale ha aggiunto che bisogna “tenere i nervi saldi” e che ripone “fiducia nell’incontro di giovedì” a palazzo Chigi “sperando che tutto vada bene”.

Cancellieri ha inoltre sottolineato che la situazione di Taranto è “preoccupante perchè i posti di lavoro messi in discussione sono tantissimi, non solo a Taranto, ma anche per tutto l’indotto”. (TMNews)

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Il contenuto di questo articolo, pubblicato da Corriere della Sera – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

Roma – Tutti in libertà. I lavoratori dell’area a freddo dell’llva, circa 5mila, possono andare tutti a casa, a cominciare dal prossimo turno. I badge sono tutti disattivati. Tranne per lo staff e i dipendenti delle officine. È quanto comunicato dalla dirigenza Ilva ai sindacati dopo un incontro urgente nello stabilimento. Tutti le sigle sindacali hanno deciso di occupare l’azienda con un presidio permanente. Rimarranno fino a quando non avranno rassicurazioni sul loro futuro.

LO SCIOPERO IMMEDIATO – Contestualmente è stato dichiarato lo sciopero. In una nota congiunta i sindacati annunciano: «Riteniamo inaccettabile la decisione della direzione di fermare tutti gli impianti dell’area a freddo a partire da questo pomeriggio. Consideriamo tale scelta un vero e proprio atto di rappresaglia nei confronti dei lavoratori. Pertanto si proclama da subito lo sciopero di tutto lo stabilimento, con presidi permanenti». La decisione dell’azienda di chiudere gli impianti a freddo è una chiara reazione ai provvedimenti della magistratura con gli arresti e i sequestri di questa mattina. L’azienda non garantisce più per loro, né per la richiesta degli ammortizzatori sociali e né altro. Per la prima fase i dipendenti dovranno usufruire delle ferie da smaltire.

CONFINDUSTRIA – «Le ultime vicende giudiziarie abbattutesi sull’Ilva pongono davanti ad interrogativi ben più inquietanti rispetto a quelli sorti quando la vertenza era appena cominciata – è scritto in una nota di Confindustria Taranto – l’azienda è di fatto azzerata sia in ordine ai suoi centri decisionali sia sul fronte della produzione, a seguito del sequestro dei prodotti finiti e semilavorati destinati alla vendita».

LA REAZIONE DELLA FIOM – «Dopo i fatti di oggi all’Ilva di Taranto – afferma il segretario generale, Maurizio Landini – riteniamo ancora più urgente che il presidente del Consiglio Monti convochi immediatamente un incontro a Palazzo Chigi, come già richiesto unitariamente il 20 novembre scorso dalle organizzazioni sindacali. A questo punto, è il governo che deve assumersi la responsabilità la salvaguardia della salute e dell’occupazione, non solo a Taranto, ma in tutto il gruppo».

LA RABBIA MONTA ANCHE A GENOVA – La situazione venutasi a creare all’Ilva di Taranto rischia di portare alla chiusura anche gli stabilimenti di Genova, dove lavorano 1.760 persone. Lo ha sottolineato il segretario della Fiom di Genova, Francesco Grondona. «Senza Taranto, Genova ha un’autonomia di quattro giorni – ha spiegato Grondona -. Aspettiamo per capire meglio quanto sta accadendo, ma una cosa è certa: non saremo gli agnelli sacrificali di nessuno. Siamo contrari a qualsiasi ipotesi di chiusura. Se così fosse, allora muoia Sansone con tutti i filistei».

LA NOTA DELL’AZIENDA – L’Ilva, in una nota, dice che il sequestro della produzione disposto dalla magistratura «comporterà in modo immediato e ineluttabile l’impossibilità di commercializzare i prodotti e, per conseguenza, la cessazione di ogni attività nonchè la chiusura dello stabilimento di Taranto e di tutti gli stabilimenti del gruppo che dipendono, per la propria attività, dalle forniture dello stabilimento di Taranto». Poi ribadisce l’assoluta regolarità delle autorizzazioni e dell’impatto produzione-ambiente. «Per chiunque fosse interessato – conclude la nota – l’Ilva mette a disposizione sul proprio sito le consulenze, redatte da i maggiori esponenti della comunità scientifica nazionale e internazionale, le quali attestano la piena conformità delle emissioni dello stabilimento di Taranto ai limiti e alle prescrizioni di legge».

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Roma – Se chiude l’Ilva di Taranto, scompare l’ultimo grande impianto in Italia per la produzione di acciaio a ciclo integrale, dall’altoforno ai laminati, ai tubi. Per il gruppo Riva, quarto in Europa nella siderurgia, sarebbe un colpo durissimo.

Per l’economia italiana un danno a catena, che colpirebbe, innanzitutto gli altri stabilimenti del gruppo (Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica), quindi l’indotto (oltre ai 12 mila dipendenti diretti, ce ne sono tra i 5 e i 7 mila che vivono dei servizi che ruotano intorno al megastabilimento, il più grande d’Europa, e i clienti, che vanno dal distretto metalmeccanico di Brescia all’industria degli elettrodomestici, dai cantieri navali al settore dell’auto, dall’edilizia al comparto dell’energia.

Tanto che Federacciai-Confindustria ha quantificato in una cifra oscillante tra 5,7 miliardi e 8,2 miliardi di euro le ripercussioni negative sull’economia nazionale. Cioè qualcosa che può valere mezzo punto del prodotto interno lordo.
L’acciaio serve per fare viti, chiodi, bulloni e chiavi, dei quali l’Italia è grande produttrice.

Ma anche per costruire navi, altro settore nel quale, nel segmento crociere, primeggiamo nel mondo, piattaforme offshore, caldaie e impianti industriali. Le lamiere d’acciaio danno forma alle lavatrici, alle automobili e ai treni, che oltretutto corrono sui binari. Gasdotti e oleodotti necessitano dei grandi tubi che escono dagli stabilimenti siderurgici. Le costruzioni e le ristrutturazioni vivono sull’acciaio: dai ponteggi esterni sui quali si muovono gli operai ai tondini per il cemento armato alle travi che sorreggono strutture e ponti. Le macchine industriali, altra leadership italiana nel mondo, non si muovono senza alberi di trasmissione e altri componenti in acciaio.

Taranto ha prodotto l’anno scorso circa 8 milioni di tonnellate di nastri e lamiere d’acciaio, ma negli anni che l’economia tirava ne ha sfornati anche 9-10 milioni, pari a più del 40% della produzione nazionale. Degli 8 milioni di tonnellate circa 5 sono andati a rifornire il mercato nazionale, da colossi come Fiat e Fincantieri alle piccole imprese dei distretti metalmeccanici. Tre milioni di tonnellate, invece, sono state esportate, la gran parte, 2,5 milioni, in Europa, dove la Germania è prontissima a prendere il nostro posto, e mezzo milione nel resto del mondo, dove la concorrenza cinese è sempre più agguerrita.

Se l’Italia dovesse importare i 5 milioni di tonnellate di acciaio che ora prende da Taranto, stima Federacciai, l’esborso verso l’estero oscillerebbe tra 2,5 miliardi e 3,5 miliardi, dipende dalle condizioni di prezzo e dalla congiuntura. Stessa cosa vale per le esportazioni, dove si perderebbero tra 1,2 e 2 miliardi di euro. Il danno per la bilancia commerciale andrebbe da un minimo di 3,7 miliardi a un massimo di 5,5 miliardi. A questi si devono aggiungere fra 750 milioni e 1,5 miliardi che gli attuali clienti dell’Ilva dovrebbero sopportare di maggiori costi per la logistica e gli oneri finanziari. Un altro miliardo andrebbe considerato per gli ammortizzatori sociali e 250 milioni per il calo dei consumi conseguente al tracollo dei redditi in tutta l’area di Taranto. Totale, appunto: minimo 5,7 miliardi, massimo 8,2 miliardi.

Secondo Rocco Palombella, segretario della Uilm, che all’Ilva di Taranto fu assunto nel lontano 1973, questi calcoli, oltretutto, non tengono conto del dramma sociale che si aprirebbe, «anche perché l’età media dei dipendenti è intorno ai 35 anni» e quindi non c’è ammortizzatore sociale che possa bastare. Dovrebbero trovare un altro lavoro. «Ma quale in quella zona?», si chiede il sindacalista.

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