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FREEDOMLAND: TECNOLOGICO FALSO IN CERCA DI FUTURO

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The waste(freedom)land: perchè può solo peggiorare.

Freedomland è un altro esempio di TMT (Technology, Media, Telecommunications) “falso”, cioè di operatore che si è ammalato per ragioni estranee alla sua natura di titolo tecnologico. Dal suo esordio in borsa durante la primavera dei tecnologici il suo valore è precipitato dagli ottimistici €100 fino a qualche euro per sedersi recentemente sui generosi €16.

Come e-Planet, Freedomland si è tuffato nel B2C (Business to consumer) all’insegna della Web-Tv proiettandosi baldanzosamente su più mercati europei in contemporanea, quali quelli di Spagna, Germania, Inghilterra. Come e-Planet è andato vicino a chiudere la saracinesca dopo aver sperato di essere adottato dalla cordata di turno, nel suo caso quella di Cuneo-Cairo-Benatti, che però si è dileguata in extremis, peraltro – come vedremo – saggiamente. La rinuncia di Gianfranco Cuneo che è stato l’advisor strategico della società, la dice lunga sulle possibilità di riscatto da parte di quest’ultima.

A differenza di e-Planet, Freedomland è destinata a peggiorare, malgrado l’uscita del suo fondatore Virgilio Degiovanni e la revisione annunciata del piano industriale. Vediamo perché.

Intanto, diciamolo pure, Degiovanni non è mai stato accettato dalle famiglie del capitalismo italiano (i suoi seguaci sono i “consumer” mentre gli investitori che contano sono istituzionali e aziendali). Vuoi per la fatiscente Millionaire Card distribuita in Multilevelmarketing (con tanto di setta stile “Magnolia”), vuoi per la “stangata” del suo Shopping Network rifilata ai negozi, vuoi per la sua fama di principe del mordi e fuggi nostrano, nonché di pagatore “distratto”. La perdita di credibilità strategica, menzionata nel commento della società al bilancio 2000, è da ricondurre anche a questo pregiudizio ufficioso.

A livello di modello di business, l’errore fondamentale di Freedomland è stato pensare che gli italiani – così come gli altri, del resto – volessero Internet sul televisore o che quest’ultimo potesse avvicinarli ad Internet.

Innanzitutto l’internauta tipico non proviene dal televisore ma dal Personal computer. I contenuti veicolati nel televisore sono più editoriali e spettacolari (film) di quelli che passano dal Pc. Ma quelli spettacolari, ovvero audiovisivi, non passano nella connessione analogica telefonica a 56 Kbyte. Il risultato di una Tv soffocata dall’ esigua “vena telefonica” è quello che si vede visitando il sito di Freedomland: un portale come e meno di tanti altri, solo visualizzato sullo schermo televisivo (che non si capisce cosa possa aggiungere).

Il televisore risponde alla logica del contenuto uno a molti, eventualmente interattivo, ma solo a livello di modalità “on demand”. Nemmeno la tecnologia digitale terrestre (DTT) potrà garantire piena interattività, quella uno-a-uno, con un operatore vivo e in tempo reale, perché proseguirà, per quanto in modo più evoluto e capace, la natura univoca e necessariamente standard del mezzo di massa (di cui il pubblico continuerà ad avere bisogno, soprattutto quelli che vogliono rilassarsi e non scegliere). Il DTT comporterà il passaggio dalla trasmissione uno-a-molti alla trasmissione molti-a-molti, ma sempre dall’erogatore al fruitore e non viceversa. La piena interattività continuerà a transitare per il computer e il doppino telefonico, probabilmente anche quando quest’ultimo sarà “allargato” dalle tecnologie DSL (Digital Subscriber Line).

L’integrazione del set top box al televisore (in attesa di quello digitale, dopo aver smaltito le scorte di apparecchi analogici) è dunque troppo debole per sostituirsi al Pc. Successivamente, quando le frequenze digitali terrestri veicoleranno il nuovo protocollo Ipv6 e la televisione sarà digitale, sarà la fatidica convergenza a rendere inutile il decoder. In quel caso è probabile che i film si guarderanno o navigheranno nello stesso device in modo pienamente interattivo (nel senso prima indicato).

Ancora una volta, all’origine dei presunti mali della new economy vi è banalmente la fretta di bruciare i tempi di assimilazione di un dato bene o servizio da parte del mercato che non ne percepisce la necessarietà (ed è quest’ultima e non l’opportunità a generare economia). Fretta peraltro accentuata dall’espansione contemporanea su mercati eterogenei come quelli europei (come è successo a Tiscali). Per esempio il mercato inglese, apparentemente più permeabile perchè avezzo al modello della Pay-tv, si è rivelato difficile in quanto saturo. I mercati spagnolo e tedesco, sebbene più avviati di quello italiano, sono invece da costruire.

I contenuti. Quelli di Freedomland erano e sono davvero poveri, e comunque per Internet e non per Internet sul televisore. A Freedomland è mancata dunque la capacità di sindacarli ma non il coraggio di chiedere 20.000 lire al mese, oltre alle 400.000 lire per il Set top box. Quando il management si è accorto di avere sbagliato modello di business in magazzino si contavano decoder per svariate decine di miliardi di lire.

A far arrossire i numeri di Freedomland sono inoltre le spese per la pubblicità (17 miliardi di lire), qualche miliardo di lire in risorse umane e dirigenti (che non sono le risorse umane) e molti di più, troppi, anticipati alla rete di vendita esterna I&T (di Degiovanni…), oltre alle ingenti spese per la quotazione in borsa. Più la vistosa mancanza di abbonamenti e quindi di reverse interconnection da parte di Infostrada (la percentuale sul traffico telefonico riconosciuta dall’operatore telefonico convenzionato) e di pubblicità: totale 150 miliardi di lire di perdite, controbilanciate da una cassa di 430 miliardi e una capitalizzazione nel Nuovo Mercato di 500 miliardi.

Con questi soldi il management si ripropone semplicemente di migliorare il servizio, tagliare i costi, distribuire in comodato d’uso l’ingente magazzino di set top box accumulati, offrire la piattaforma ai circuiti aziendali, abbandonare la web tv per la tv digitale passante per l’antenna.

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*Ettore Iannelli è un analista di marketing strategico del settore telecomunicazioni.