Economia

Brexit, perchè l’isolazionismo non paga

di Angelo Lucarella, avvocato, saggista, editorialista

Qualche giorno fa Nigel Farage, membro del Brexit Party e leader del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito dal 2010 al 2016 (e prima ancora dal 2006 al 2009), ha attribuito il fallimento della Brexit al partito britannico dei Tory (si tratta di un partito a tendenza tradizionalistica, conservatrice e filo-monarchico che a partire dal 1830 cambiò nome nell’attuale conservative posizionandosi a destra).

A parte questa precisazione storica che serve a comprendere lo stato politico a cui Farage fa riferimento, c’è da considerare che il fallimento della Brexit è prima di tutto economico.

Il fallimento economico della Brexit

I dati dell’Oec (Observatory of economic complexity) al 2021 consolidano Londra come regina della importazione. È questo un elemento di valutazione che va slegato rispetto alla tradizione storica colonialista nel senso che la Brexit, nell’idea di Farage e company, avrebbe dovuto portare più produzione interna unita al consolidamento indiretto ed implicito della UK tra i potenti del mondo (nel senso “se produco a casa mia, non ho bisogno di altro”).

Ovviamente quest’ultimo passaggio sta a voler dire che un conto è la Gran Bretagna ed altro conto è la UK (United Kingdom è composta da Gran Bretagna più Irlanda del Nord e territori d’oltremare): la Brexit ha interessato il primo caso.

Tuttavia le valutazioni interessanti sono su UK (come macro sistema-area). Come accennato, i dati Oec al 2021 descrivono, a livello comparativo, una UK-mercato-garantito nel senso che la moneta reale “segue la realtà del mercato” costituito dai Paesi sotto impero.

Questo concetto, nella dimensione macro-dimensionale del rapporto con altre monete, ha consentito e consente tuttora a Casa Windsor di garantire alla sterlina il posizionamento mondiale tra le dieci monete più forti. Si pensi per un attimo che euro e dollaro costano più della sterlina britannica (al quinto posto sterlina, al nono euro e al decimo il dollaro).

La garanzia monetaria della sterlina britannica, ad oggi, non consiste solo nella sostenibilità delle importazioni a fronte della produzione interna nella considerazione che importare costi meno che produrre, ma nei risultati differenziali che il mercato interno (specie quello finanziario) riesce a conseguire con gli investimenti di rendita (titoli pubblici, banche con interessi e attività in altri Stati, ecc.).

La Brexit, quindi, fidava del fatto che la maggiore indipendenza decisoria (tornando così ad una perfetta indipendenza del sistema basata verso l’esterno sulle tradizionali convenzioni internazionali e sugli accordi bilaterali) ampliasse il potere britannico su scala mondiale generando effetto ancora più concorrenziale all’Unione Europea ed agli Stati Uniti.

Le riserve auree

Su quest’ultimo fronte invece, chi ha spinto per la Brexit, probabilmente non ha fatto i conti con le riserve auree. I dati del World Gold Council, al 2020, hanno attribuito il primo posto a livello mondiale agli USA, mentre UK non è neanche tra le prime 9 in classifica essendo superata per giunta da Germania, Italia, Francia, Russia, Cina, Svizzera, Giappone ed India.

Ebbene, sapendosi che le riserve auree hanno la funzione di rafforzare la fiducia nella stabilità del sistema finanziario e della moneta, si da il caso che l’importanza della sterlina britannica non è, come dimostrato, nell’oro ma nei giochi di forza consegnati dalla storia (il colonialismo) e nella capacità di marginalizzare i rapporti finanziari (il post-colonialismo).

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, proprio la marginalizzazione finanziaria ha consentito e permesso alla sterlina di rimanere garante di un sistema-Paese che ha fatto della contaminazione di mercato la propria forza strutturale (che si traduce in migliore competitività in termini di attrazione finanziaria). Senza trascurare, in ultimo, i dati del Fondo Monetario Internazionale al 2022 riguardo ai Paesi con il più alto debito pubblico al mondo: al primo posto c’è il Giappone che è, come visto, tra i 9 Paesi con più riserve auree. Non c’è UK tra i primi dieci posti per debito pubblico.

Tutto ciò sta a rappresentare un fatto ovvero che la corona britannica garantisce il mercato interno e l’apprezzamento monetario grazie al fatto che il debito pubblico è basso e che le marginalizzazioni sono sufficienti (e corpose) a poter fronteggiare il livello di importazioni.

C’è un però. Il sistema regge se i Paesi da cui maggiormente UK importa non hanno moneta che si apprezzi a tal punto da rendere competitiva (e perciò non conveniente) la scelta di acquisto.

Sempre i dati Oec piegano la Brexit all’evidenza empirica: gli Stati da cui gli UK importano maggiormente sono Cina, Germania, Stati Uniti d’America, Olanda e Norvegia; mentre i Paesi verso cui maggiormente esporta sono USA, Germania, Olanda, Irlanda e Svizzera.

E qual è il bene più trafficato nel gioco dare-avere di cui sopra? L’oro che è il primo bene importato ed il secondo esportato.

Da dove importa oro UK? Anzitutto dalla Russia, poi da Usa, Canada, Svizzera e Kazakhstan e viene esportato nuovamente alla Svizzera, Emirati Arabi, Germania, Singapore e Spagna.

L’Ocse al 2021 ha certificato il peggior risultato di Pil (e il Covid poco c’entra) per UK da quando c’è stata Brexit guarda caso rispetto ai Paesi da cui maggiormente importa oro (USA e Svizzera in primis).

Si può intuire una sorta di interdipendenza funzionale a cui l’isolazionismo puro non potrà mai rispondere positivamente.

La Brexit, in definitiva, ha fallito? Senz’altro sul piano economico-finanziario dato che l’isolazionismo di cui sopra non è garantito da tutto l’oro del mondo.

E con i porti nord europei più vicini a Pechino, anche Londra rischia di dover marginalizzare sottotraccia sui Paesi interessati dalla via della seta.