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BANCHE, PAGHI TU PER LE VORAGINI IN BILANCIO?

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*Alfonso Tuor e’ il direttore del Corriere del Ticino. Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – La notizia era preannunciata: la disastrosa avventura di UBS nel mercato dei titoli legati al settore immobiliare americano si tradurrà nella soppressione di 5’500 posti di lavoro, di cui 1’500 in Svizzera. In Ticino non si prevedono licenziamenti, ma il personale della maggiore banca svizzera verrà ridotto sfruttando la fluttuazione naturale del personale (pensionamenti, dimissioni, ecc.).

Dunque, come sempre accade, i dipendenti saranno chiamati a pagare i grossolani errori dei dirigenti dell’istituto. Questo commento non è così scontato, come può apparire a prima vista. Infatti oltre al capo dell’investment banking, cui è stata attribuita gran parte della responsabilità delle perdite miliardarie, l’unica vittima di spicco è apparentemente solo Marcel Ospel, di cui l’anno prossimo verremo forse a conoscere la buonuscita milionaria.

Il gruppo dirigente attorno al gran patron di UBS non è stato toccato minimamente ed anzi è riuscito a far nominare un suo uomo, Peter Kurer, alla presidenza del Consiglio di Amministrazione. Il successore di Marcel Ospel è pure riuscito nell’ultima Assemblea degli azionisti a sostenere che il suo obiettivo sarà quello di separare meglio i compiti tra direzione generale del gruppo e Consiglio di Amministrazione, privilegiandone il ruolo di sorveglianza di quest’ultimo. In realtà, ciò corrisponde a quanto prevede la legge e quindi Peter Kurer ha implicitamente ammesso che anche il Consiglio di Amministrazione non ha assolto ai suoi compiti. Eppure, nessuno dei suoi membri, dal vicepresidente Sergio Marchionne ad Ernesto Bertarelli, ha sentito il dovere di dimettersi.

Tutto ciò comunque è già storia. Si tratta ora di capire quali siano le prospettive della maggiore banca svizzera. Ebbene: le difficoltà sono tutt’altro che superate. L’ammissione è dello stesso Marcel Rohner. In effetti il presidente della Direzione generale della banca si è rifiutato di indicare quando l’istituto tornerà in zona utili. E la sua prudenza è comprensibile.

UBS, nonostante abbia già registrato a bilancio 37 miliardi di franchi di perdite, deteneva ancora a fine marzo titoli legati ai mutui subprime per 15,65 miliardi di dollari e titoli legati al mercato immobiliare americano (definiti Alt-A) per 17 miliardi di dollari. Le posizioni a rischio non si limitano però a queste due voci. Ad esse sono sicuramente da aggiungere l’esposizione verso i prodotti strutturati, nei crediti ad Hedge Funds e ai fondi di Private Equity, ecc. Dunque i tempi del ritorno nelle cifre nere dipenderanno dall’evoluzione della crisi finanziaria, che nelle ultime settimane sembra essere entrata in una fase di bonaccia.

La redditività di UBS non tornerà tuttavia ai livelli precedenti a questa crisi. Negli anni scorsi gran parte degli utili dell’investment banking erano proprio generati da quelle attività che oggi sono all’origine delle perdite miliardarie. Più in generale, è prevedibile che questa crisi finanziaria produca un forte ridimensionamento di tutte le attività legate alla nuova ingegneria finanziaria, che erano molto redditizie per il settore bancario.
Ma nel caso di UBS c’è qualcosa di più.


La crisi ha provocato una perdita di clientela anche nel settore della gestione patrimoniale. Ad abbandonare UBS e a cambiare banca sono stati soprattutto la «piccola clientela» svizzera (nei primi tre mesi dell’anno vi è stato un deflusso netto di 1,9 miliardi di franchi) e gli investitori istituzionali (il deflusso netto è stato di 16,5 miliardi di franchi). Ma problemi si sono riscontrati anche con i grandi clienti del Private Banking, visto che la raccolta netta è stata solo di 5,6 miliardi di franchi. Inoltre questi dati si fermano alla fine dello scorso mese di marzo e quindi non tengono conto di un aprile, che, tutti sanno, è stato molto difficile per UBS.

Tutto ciò indica che anche la gallina dalle uova d’oro, ossia la gestione patrimoniale, non è destinata nel prossimo futuro a generare una redditività simile a quella degli anni scorsi. Inoltre, è ancora impossibile capire quale è l’impatto della crisi sulla reputazione della banca a livello internazionale e quindi sulla sua capacità di attrarre nuova clientela.

Il «calvario» di UBS non sembra dunque concluso. La ricapitalizzazione, che verrà completata con il nuovo aumento di capitale di 15 miliardi di franchi, mette la banca al riparo da spiacevoli sorprese. Ma il ritorno ad una forte redditività resta lontano. Molto probabilmente per raggiungere questo traguardo occorreranno ancora due o tre anni, come del resto avevano implicitamente previsto il fondo statale di Singapore e l’anonimo investitore arabo che alla fine dell’anno scorso avevano chiesto tassi di interesse del 9% per sottoscrivere 13 miliardi di obbligazioni (che saranno convertite obbligatoriamente in azioni UBS tra tre anni).

Dunque: sia per UBS, sia per le altre grandi banche i «dolori» non sono finiti e a pagarne il prezzo saranno i dipendenti, non sicuramente i responsabili delle follie della nuova ingegneria finanziaria che hanno causato questa crisi, la più grave del secondo dopoguerra.

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