Economia

Krugman contro Bernanke: due visioni a confronto sulla crisi del 2008

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A dieci anni dal fallimento della Lehman Brothers, divenuto emblema della Grande Recessione, il dibattito fra gli economisti ha ripreso fiato nel tentativo di spiegare, una volta di più, perché un simile evento si sia verificato. E, soprattutto, perché i suoi effetti sono stati così persistenti.

 

Su quest’ultimo punto si sono confrontati a distanza il premio Nobel per l’economia Paul Krugman e l’ex presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, all’epoca dei fatti all’apice della politica monetaria americana.

 

In sintesi, Krugman attribuisce alla persistenza della crisi del 2008 un insufficiente stimolo della politica fiscale, ovvero dell’aumento della spesa pubblica, che non avrebbe sostenuto adeguatamente la ripresa. Dal canto suo Bernanke, pur non negando l’importanza dell’intervento dello stato, sostiene che la scarsa resilienza delle banche di fronte al crollo dei prezzi immobiliari ha comportato un aggravamento determinate delle condizioni del credito tale da spingere famiglie e imprese a tirare la cinghia – e ha rallentare a lungo l’economia.

Così Krugman:

“Cosa avremmo dovuto fare per raggiungere una ripresa più veloce? La spesa privata era depressa; la politica monetaria era inefficace perché eravamo al limite inferiore dei tassi di interesse. Quindi avevamo bisogno di espansione fiscale, una combinazione di spesa e tagli alle tasse”, scrive Krugman sul New York Times, imputando le responsabilità anche ai Repubblicani che allora ostacolarono politiche espansive più audaci. “Il risultato finale fu che la politica si mosse rapidamente e in modo abbastanza efficace per salvare le banche, e poi voltò le spalle alla disoccupazione di massa. E’ una storia triste e odiosa. E ci sono tutte le ragioni per credere che se avremo un’altra crisi, accadrà di nuovo”, conclude l’economista.

L’argomento di Krugman, in precedenza è stato condiviso da un altro premio Nobel, Joseph Stiglitz, che in questi giorni ha commentato la crisi del 2008 mettendo l’accento su questioni analoghe e dibattendo a distanza con un altro peso massimo fra gli economisti americani, Larry Summers.
L’argomento di Bernanke, frutto di un nuovo paper, mette al centro i limiti del sistema finanziario.

“Perché la Grande Recessione è stata così profonda? Certamente, il crollo della bolla immobiliare è stato il principale evento scatenante; i prezzi delle case in calo hanno depresso la ricchezza e la spesa dei consumatori e hanno portato a forti riduzioni dell’edilizia residenziale. Tuttavia l’aspetto più dannoso della bolla è stato il fatto che alla fine ha provocato un panico finanziario generalizzato”, scrive Bernanke sul sito della Brookings Institution, un panico che sarebbe stato più contenuto “se il sistema finanziario fosse stato abbastanza forte da assorbire il crollo della bolla immobiliare”.

L’ex numero uno della Fed entra nel dettaglio spiegando che “nel mezzo del panico, qualsiasi azienda che si affida al credito per finanziare le sue operazioni o che potrebbe aver bisogno di credito nel prossimo futuro dovrà affrontare forti incentivi verso il risparmio di denaro e aumentare le riserve precauzionali. Per molte aziende, il modo più rapido per tagliare i costi è licenziare i lavoratori, piuttosto che accaparrarsi manodopera e accrescere le scorte di fronte al rallentamento della domanda, come normalmente farebbero. (…) I lavoratori, a loro volta, essendo stati licenziati o sapendo che potevano esserlo, e in condizioni di mancanza di accesso al credito, hanno parimenti avuto tutti gli incentivi nella riduzione della spesa e verso l’accumulo di riserve di liquidità”.

Dal 2008 a oggi gli interventi di rafforzamento del sistema bancario sono stati sicuramente al centro dell’attenzione dei policy maker – anche se è difficile dire se ciò sia stato fatto a sufficienza.