
Le successioni delle grandi famiglie italiane occupano ampio spazio sui mezzi di informazione, suscitando curiosità ed interesse. In aggiunta, esse offrono spesso anche importanti spunti di riflessione in ottica di wealth planning, consentendo di apprezzare, in base all’evolversi degli accadimenti, l’efficacia delle scelte operate in vita dall’imprenditore in relazione al trasferimento intergenerazionale del proprio patrimonio.
Una delle vicende ereditarie più note è quella riguardante Leonardo del Vecchio, in relazione alla cui successione gli eredi non hanno ancora raggiunto un accordo, essendo mancata la loro convergenza unanime in seno a Delfin, holding lussemburghese (che custodisce, tra l’altro, una partecipazione di circa il 32% in Essilor Luxottica) nella quale gli otto eredi detengono il 12,5% del capitale ciascuno.
Alla ricerca dell’unione familiare.
La scelta del cav. Del Vecchio è stata infatti quella di prevedere statutariamente un quorum deliberativo nella misura dell’88% (che si traduce, in concreto, nella necessità dell’unanimità dei consensi ai fini dell’adozione delle delibere assembleari), probabilmente guidata dall’auspicio – che nella prassi si dimostra, purtroppo, il più delle volte illusorio – che gli eredi si trovassero sempre d’accordo, o che comunque un quorum di fatto “totalitario” avrebbe garantito uniformità di trattamento tra loro, prevenendo a priori il rischio della formazione di coalizioni a danno di uno o più familiari.
Altri imprenditori hanno ritenuto invece di individuare già in vita gli eredi a cui affidare il controllo del gruppo, come Silvio Berlusconi, che – con il sintetico, ma chiaro e puntuale testamento olografo predisposto in data 2 ottobre 2006 – attribuì la quota disponibile in parti eguali ai figli Marina e Pier Silvio, e il residuo patrimonio in parti uguali ai cinque figli Marina, Pier Silvio, Barbara, Eleonora e Luigi. In virtù di tale disposizione, ai figli nati dal primo matrimonio venne attribuita una quota complessivamente pari al 53% di Fininvest, concentrando così la guida della holding in capo ai figli di primo letto. La disposizione – pur perfettibile nella parte in cui istituisce eredi i figli in quote ideali dell’asse, con conseguente formarsi, all’apertura della successione, di uno stato di comunione, che comporta il rischio di stalli decisionali o conflitti – evidenzia la lungimiranza del testatore che ha scelto di non parcellizzare il controllo della holding, attribuendolo invece a soggetti specificamente individuati (ritenuti i più idonei a guidare il gruppo e ad incrementarne il valore, anche nell’interesse degli altri familiari).
Scelte radicali.
Un altro imprenditore che ha saputo operare una scelta netta in merito al controllo del gruppo è stato il fondatore di Esselunga, Bernardo Caprotti: egli, nell’ottobre del 2014, alla soglia dei novant’anni (peraltro a valle di un lungo contenzioso con i figli di primo letto), donò alla seconda moglie, Giuliana Albera, e alla figlia Marina il 70% del capitale sociale della holding Supermarkets Italiani Spa (e, insieme, il 55% della immobiliare Villata Partecipazioni Spa). A ciascuno dei figli di primo letto, con cui i rapporti si erano definitivamente deteriorati, fu attribuito – in forza di apposita disposizione testamentaria – un legato, in sostituzione della quota di legittima, avente ad oggetto l’attribuzione di una partecipazione del 20% in Supermarkets Italiani e del 22,5% in Villata: in tal modo, a costoro fu assegnato quanto dovuto ai sensi di legge (che poi, a seguito di successivi accordi e di un ulteriore contenzioso, venne liquidato in danaro dalla vedova e dalla figlia), senza metterli in condizione di bloccare le decisioni assembleari, né di ingerirsi in alcun modo nella governance di gruppo, così blindando la continuità decisionale e gestoria e proteggendo il valore dell’impresa.
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L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di febbraio 2025 del magazine Wall Street Italia. Clicca qui per abbonarti.
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