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L’approccio fiscale dell’Italia al digitale

In alcuni casi la nuova versione della web tax italiana genera un’imposizione inappropriata. É necessario introdurre dei correttivi

Le discrepanze tra le normative fiscali nazionali e internazionali e la digitalizzazione dell’economia hanno generato numerose analisi e reazioni a livello legislativo e amministrativo negli ultimi dieci anni. L’attenzione si è concentrata su due peculiarità delle imprese digitali: la capacità di penetrare un mercato senza una presenza fisica abituale e la raccolta/gestione di una grande quantità di dati sugli utenti delle piattaforme di strumenti digitali.

Le difficoltà per trovare una base imponibile.

La prima risposta internazionale e nazionale è stata quella di trovare soluzioni per assegnare la potestà impositiva sui redditi generati localmente dalle multinazionali dell’economia digitale. Tuttavia, oggi assistiamo a una situazione di stallo a causa dell’irrigidimento della posizione degli Stati Uniti a sostegno delle multinazionali del settore, con il contemporaneo consolidamento delle normative locali come la digital service tax (in vigore in numerosi stati europei). Negli ultimi anni c’è stato un cambiamento di approccio da parte delle amministrazioni finanziarie ora focalizzate sull’applicazione della normativa Iva alle multinazionali dei settori, valorizzando il possesso di dati e informazioni sugli utenti.

Da tale trend ne sono derivati nuovi filoni di accertamenti fiscali e nuove normative come la DAC7 e la Vida. L’imposta sui servizi digitali italiana (“DST”) è in vigore dall’anno fiscale 2020 e impone un’aliquota del 3% sui ricavi generati dalla pubblicità digitale, dai servizi di marketplace e dalla raccolta di dati dalle attività degli utenti. L’importo totale della DST riscossa nei primi tre anni è stato di 928 milioni di euro, di cui 390 milioni come entrata annua (per l’anno fiscale 2022).

La nuova imposta DST.

Con la Finanziaria 2025, la DST ha esteso la platea di contribuenti applicandosi a coloro che fanno parte di un gruppo con ricavi consolidati superiori a 750 milioni di euro, indipendentemente dall’importo dei ricavi rilevanti a livello locale (soglia esistente fino al 2024). La rimozione della soglia delle entrate locali dovrebbe far scattare entrate aggiuntive di circa 50 milioni di euro. L’attuale impostazione della DST genera un’imposizione inappropriata in almeno due situazioni: la prima è quella delle multinazionali in situazione di perdita consolidata, e nel secondo caso in multinazionali con un’entità locale remunerata con un rendimento della vendita. Nel primo caso, frequente nell’industria digitale a causa dei significativi investimenti tecnologici, l’applicazione della DST sui ricavi lordi in situazione di perdita di gruppo comporta una tassazione di una capacità contributiva inesistente.

Nel secondo caso, la DST del 3% sui ricavi lordi equivale a un’imposizione diretta su un reddito ante imposte pari a circa il 12% dei ricavi a cui sommare la remunerazione attribuita al distributore tramite le regole di transfer pricing. Ciò porta ad attribuire al mercato un valore lontano da quello ora ottenibile con un approccio di libera concorrenza (i distributori sono remunerati con un margine netto sui ricavi del 2-6%, come confermato dall’Ocse). In assenza di una soluzione condivisa a livello internazionale, si ritiene pertanto necessario correggere la DST apportando i seguenti correttivi: abbassare l’aliquota per le multinazionali con una perdita su base consolidata e ridurre l’aliquota per le multinazionali che operano localmente con un rivenditore o definire un safe harbour sulla remunerazione del rivenditore.

L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di maggio 2025 del magazine Wall Street Italia. Clicca qui per abbonarti.