Società

BERLUSCONI, GIORNATE
DA FINE IMPERO

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(WSI) – Silvio Berlusconi non ha accettato quel suffisso latino che non avrebbe mai voluto veder legato al suo nome con un trattino. Non ci sarà, per ora, il Berlusconi-bis. E non ci saranno quelle dimissioni che il presidente del Consiglio non voleva dare. Sono tornati i rituali della prima repubblica, hanno gridato i leghisti. «Vogliono uccidere Berlusconi», ha tuonato Umberto Bossi con accenti shakespeariani. E la soluzione della crisi di governo si è arenata ancora una volta contro il solito scoglio: la Lega, l’alfa e l’omega di questa coalizione e dello stesso Berlusconi.

E tutto si compie mentre dalle urne arriva un’altra sonora batosta, o meglio la conferma della sconfitta di due settimane fa. Con la Basilicata (conquistata con percentuali bulgare) sono 12 le regioni che vanno al centrosinistra e solo 2 quelle che restano al centrodestra. Nelle province il risultato è 2 a 0 (sempre per l’opposizione), nelle città capoluogo 8 a 1 (Venezia si aggiunge a Lodi, Mantova, Vibo Valentia, Chieti, Andria, Pavia e Macerata, mentre solo Taranto resta al centrodestra).

Sarà stata forse l’esultanza di Romano Prodi a convincere Berlusconi a non presentare le dimissioni nelle mani del capo dello Stato? Può darsi che anche questo fattore umano abbia influito, ma ancor più ha contato l’impuntatura della Lega che non ha voluto offrire a Follini una vittoria tattica. Non si sa però dove potrà andare a parare questo logoramento ormai irreversibile del rapporto tra alleati che agiscono come concorrenti, se non come avversari.

Una situazione in cui due vicepresidenti del consiglio annunciano pubblicamente la soluzione, con le dimissioni del premier, e il premier all’ultimo momento cambia idea e li frega.
E’ chiaro che l’ultimo tornante di questa crisi è stato provocato da Bossi, che ha puntato i piedi per difendere i suoi ministeri e soprattutto quello delle riforme, in mano a Calderoli. Ma siamo arrivati a questo punto anche perché Berlusconi, fortissimo uomo di opposizione, si è rivelato un debole uomo di governo.

Grande nel condurre campagne e vincerle (soprattutto quando l’avversario, come nel 2001 si era logorato a cause delle sue debolezze e contraddizioni interne), si è dimostrato poco abile nell’arte di governare. Ha tenuto tutti al guinzaglio su leggi che riguardavano i suoi interessi (dalla tv alla Cirami), ha abbandonato le briglie su riforme di interesse generale (pensioni, risparmio, mercato del lavoro, costituzione).

Ma l’errore più clamoroso lo ha commesso sulle tasse che erano la priorità delle priorità. Invece di introdurre la riforma all’inizio di legislatura per poi aggiustarne le conseguenze distributive e i contraccolpi sul bilancio pubblico, ha gestito l’operazione in modo parziale e improvvisato, imponendola in zona cesarini e sperando che avesse effetti sulle tasche e quindi sul voto degli italiani.

Invece di lamentarsi sul ritorno dei «rituali democristiani», i berlusconiani dovrebbero chiedersi come mai hanno mollato, appena arrivati al potere, quella ispirazione liberale che aveva ottenuto il consenso delle partite Iva e degli industriali, ma anche di un ceto medio voglioso di affidarsi al “presidente imprenditore”. Forse avrebbero perso lo stesso, ma senza questo rituale, esso sì, da fine impero.

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