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Alitalia, delayed

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(WSI) – In un solo mese, novembre 2010, l’Alitalia ha cancellato dal Registro aeronautico italiano ben 22 dei suoi 150 aerei, e li ha immatricolati in Irlanda. Le fonti ufficiali della compagnia smentiscono seccamente che si tratti del fenomeno di cui parlano da tempo le voci di mercato: il cosiddetto lease back.

Funzionerebbe così: quando un’azienda ha problemi di soldi vende un suo bene a una società di leasing che glielo restituisce in affitto. Si fa con gli immobili, si fa anche con i macchinari e si fa con gli aerei. Normalmente ci si rimette, perché il canone di leasing che paghi è superiore al costo del capitale immobilizzato, se non altro in misura del legittimo guadagno della società di leasing. Però quando i conti sono scassati bisogna fare, appunto, cassa.

Nel caso dell’Alitalia siamo comunque di fronte a un nuovo fenomeno. I 22 aerei trasferiti a Dublino, in proprietà a una società controllata da Alitalia che si chiama Aircraft Purchase Company, sono tutti vecchi Airbus: i più anziani hanno 15-17 anni, i più giovani 7-8 anni. Sono aerei che la compagnia ha da poco finito di pagare, e quindi non sono più ipotecati dalle banche che avevano finanziato l’acquisto. Il trasferimento in Irlanda serve a renderli disponibili per garantire nuovi debiti dell’Alitalia, per un valore stimabile in 4-500 milioni.

La ragione del trasferimento in Irlanda è molto tecnica, ma significativa: è l’unico Paese europeo ad aver aderito alla convenzione di Cape Town, che vieta ai creditori di una compagnia insolvente (per esempio una società aeroportuale) di bloccare un suo aereo. In pratica una banca presta soldi all’Alitalia, o a simili aziende, solo se gli aerei dati in garanzia sono di targa irlandese, sennò chi presta i soldi rischia di vedersi sfilare la garanzia da un altro creditore.

Tutto questo significa che a soli due anni dalla nascita, e a due anni dalla prevista cessione a Air France, programmata per il 2013, la compagnia di Colaninno sta già lavorando alacremente alla gestione del debito, fissato a fine 2010 a 839 milioni.

La gestione della nuova Alitalia infatti non va bene. Nel suo primo anno di vita, il 2009, ha perso 350 milioni di euro. Il 2010 si è chiuso con una perdita di 168 milioni. Il 2011 doveva essere l’anno del ritorno ai profitti, secondo le ottimistiche previsioni dei “patrioti” chiamati da Silvio Berlusconi a strappare la compagnia di bandiera dalle mani degli odiati cugini d’Oltralpe, l’Air France a cui il governo Prodi aveva già venduto nella primavera del 2008. Invece anche quest’anno si prevede di perdere un centinaio di milioni di euro.

Ma è la gestione industriale a dare serie delusioni agli azionisti della variopinta cordata di nomi blasonati dell’industria italiana che nel 2008 risposero all’appello di B. per acquisire benemerenze agli occhi del governo che si era appena insediato. Nel 2010 le compagnie di analoga dimensione e ambizioni hanno fatto lauti profitti.

L’azienda guidata dall’amministratore delegato Rocco Sabelli, che pure è nata senza debiti, lasciando in eredità allo Stato italiano circa 3 miliardi di euro di zavorra della vecchia gestione pubblica, non marcia. Nel 2007, sommata con l’Air One che ancora era indipendente, trasportò 32 milioni di passeggeri. Nel 2010 i passeggeri trasportati sono 23 milioni, seppure in lieve recupero rispetto ai 22 del 2009. Gli aerei viaggiano un po’ vuoti: i posti sono occupati al 72 per cento contro il 79 per cento della media mondiale.

Ma soprattutto il mercato italiano, che l’operazione sponsorizzata da palazzo Chigi doveva difendere, è diventato terra di conquista per i concorrenti stranieri. La presa sul mercato dei voli nazionali, che doveva essere garantita dalla fusione con Air One benedetta da apposita deroga dell’Antitrust, si è ridotta a un 50 per cento del mercato. Sui collegamenti internazionali invece Colaninno e Sabelli sono andati sotto: adesso il leader di mercato come posti offerti è la Ryan Air dell’Irlandese Michael O’Leary, il re del low cost. Ma anche la Lufthansa, come numero di voli internazionali negli aeroporti italiani, ha sorpassato Alitalia.

Ancora più deprimente è il bilancio in termini di efficienza. Gli aerei Alitalia del corto e medio raggio (tutti esclusi i pochi voli intercontinentali), volano poco, a causa di un’organizzazione del cosiddetto network evidentemente poco ottimizzata: 7 ore al giorno contro le 8 della media mondiale. Il che significa un aumento del costo per ogni singola ora volata.

Ancora più sorprendente è il dato sull’utilizzo dei piloti. Tutti ricordano che nel 2008 uno dei punti più caldi della dura vertenza tra i dipendenti Alitalia e la Cai di Colaninno riguardava le ore volate. I piloti, accusati di essere un po’ pelandroni, venivano inchiodati alla colpa di volare solo 560 ore all’anno contro le 700 dei colleghi tedeschi di Lufthansa.

Dicevano Colaninno e Sabelli, ma anche molti sindacalisti che li sostenevano, che bastava indurre i piloti a volare quanto i tedeschi per far diventare ricca l’Alitalia. Risultato: adesso i piloti Alitalia volano meno di prima, 530 ore all’anno. Ed è evidente che non è per colpa loro, visto che un comandate di Airbus non può accendere e partire come un tassista animato da spirito d’iniziativa.

Secondo dati pubblicati dal Sole 24 Ore, il costo medio del dipendente Alitalia è sceso dagli 82 mila euro del 2007 a 49 mila euro nel 2009. La cura low cost di Sabelli però, per quanto severa, si è rivelata un autogol. Nel 2007, infatti, i dipendenti Alitalia, molto più numerosi (troppi, si diceva allora) hanno prodotto 86 mila euro di valore aggiunto (più del loro costo), nel 2009 i pochi dipendenti imbarcati dalla nuova Alitalia hanno generato solo 45 mila euro di valore aggiunto a testa, meno del loro costo. Adesso quindi lavorano in perdita.

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