Consulenza finanziaria, ecco qual è il vero problema delle retrocessioni

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di Luca Lixi, fondatore e ceo di Lixi Invest, cofondatore e CFA di Aegis SCF

A seguito del faro accesso dalla Commissione Europea sulla modalità di vendita dei prodotti finanziari in Europa, e che potrebbe trasformarsi presto in un divieto alle retrocessioni sui prodotti finanziari venduti, si nota parecchia agitazione e malessere nel settore.

Se ne stanno leggendo di tutti i colori, anche in virtù del battage scatenato dagli attuali dominatori semi-monopolisti dell’industria della “consulenza finanziaria”.

Dalla paura che i piccoli risparmiatori verranno abbandonati al proprio destino, citando l’esempio olandese e inglese.
Mentre il rapporto “Disclosure, inducements and suitability rules for retail investors study” della Commissione Europea dice esattamente il contrario, ovvero che “non si rilevano effetti negativi sul livello di servizio per gli investitori al dettaglio”, che ora invece in virtù di “costi inferiori ottengono un rapporto qualità/prezzo migliore”.

Alla candida ammissione che sarebbe un colpo pesantissimo e con un impatto notevole per l’intera industria del risparmio gestito italiana (composta da banche o sim/sgr quotate, o appartenenti a gruppi bancari e assicurativi tradizionali), e che grazie a questo sistema commissionale drena risorse ai risparmiatori per oltre 200 miliardi ogni anno.

A mio avviso, nessuno si sta focalizzando sul vero problema.

Il vero problema delle retrocessioni

Una considerazione preliminare: il cliente medio, ovvero per colui per cui l’industria dovrebbe lavorare, non sa di cosa stiamo parlando, e non capisce quanto questo argomento sia fondamentale per i suoi risparmi. Cercherò quindi di spiegare alcuni concetti che i professionisti danno per scontato, ma che per il risparmiatore non lo sono per nulla. Anzi.

Il mio punto di vista, da fondatore di società di consulenza finanziaria indipendente (Aegis SCF) e fondatore di una delle più numerose community di risparmiatori italiani (Lixi Invest), è il seguente.

Il problema non sta il fatto che i “consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede” (o ex promotori finanziari), e le banche e sim loro “mandanti” (come Fideuram, Mediolanum, Azimut, Fineco, Generali ecc), percepiscano delle “retrocessioni”.
Ovvero dei compensi, delle commissioni, da parte delle sgr o società di gestione del risparmio, quindi le società che “costruiscono” e gestiscono i prodotti finanziari (come fondi comuni di investimento, le polizze assicurative con finalità di investimento, le gestioni patrimoniali), che spesso peraltro fanno parte dello stesso gruppo delle banche che li vendono.

Mi sembra normale che sia l’attività di gestione dei prodotti finanziari (in capo alle sgr), sia l’attività di intermediazione di questi prodotti finanziari (in capo alle sim) debba essere remunerata. Quindi, non c’è da scandalizzarsi se chi vende un prodotto finanziario incassa delle commissioni da parte di chi gestisce questo prodotto. È assolutamente lecito, in un determinato business model basato sulla vendita e collocamento di prodotti finanziari.
E non c’è da scandalizzarsi (non in questa sede, almeno) neppure se i costi di questi prodotti finanziari sono comunque molto più elevati in Italia che in tutte altre nazioni finanziariamente sviluppate, come evidenziato dal Global Investor Experience, pubblicato nel 2022 da Morningstar.

E non c’è da scandalizzarsi eccessivamente se una consulenza finanziaria apparentemente gratuita, ma che per generare commissioni e retrocessioni (il reddito del consulente) deve puntare necessariamente alla vendita e collocamento di un prodotto finanziarie, non è una vera consulenza ma più una trattativa di vendita. Tralasciamo per un attimo questi due aspetti.

Lo scandalo vero, di cui non si parla mai abbastanza, è la scarsità di trasparenza su come sono addebitati i costi al cliente finale. Costi che poi diventano retrocessioni-commissioni-provvigioni per il venditore di prodotti, che è ciò su cui la Commissione Europea sta puntando i fari.

Certamente sono a favore del libero mercato: ogni azienda dev’essere libera di vendere il proprio servizio al prezzo che desidera, e al prezzo a cui i propri clienti sono disposti ad acquistarlo. E non dovrebbe essere un regolatore comunitario ad arrivare a valutare il divieto di determinati modelli di business. Ma questo “libero mercato” (a cui inneggiano a mio avviso fuori luogo i big del risparmio gestito) viene completamente falsato dalla modalità con cui viene fatto pagare il prezzo ai risparmiatori finali. Ovvero attraverso un addebito silenzioso, detratto direttamente dal controvalore investito e senza evidente fuoriuscita di denaro dal conto del cliente, di cui si può trovare evidenza in mezzo a decine di pagine di rendicontazione Mifid 2, che arriva via posta ordinaria o in una sottosezione dell’home-banking dopo 6 mesi dalla chiusura dell’anno di riferimento. Qualcuno pensa che i clienti possano davvero leggere questo tipo di informazioni, offerto in questa forma, capirne il contenuto ma soprattutto capirne la portata reale per i propri risparmi?

La risposta è un secco NO, ed è concretamente riportato dal “Rapporto sulle scelte di investimento delle famiglie italiane” della CONSOB secondo cui:

  • il 66% dei risparmiatori sotto consulenza non sa com’è pagato il consulente o pensa che il servizio sia gratuito;
  • il 69% dei risparmiatori investe da solo o tramite consigli informali di amici e parenti.

Sono numeri che parlano chiaro, e che testimoniano a mio avviso la necessità di revisione del sistema attuale di incentivi e retrocessioni.

Questa non può essere considerato un sistema trasparente, ed è ciò su cui la Commissione Europea dovrebbe continuare ad insistere per tutelare al meglio il cliente finale. Sia quello attualmente sotto consulenza, che il risparmiatore che non valuta neppure una consulenza professionale perché evidentemente non rileva abbastanza valore e beneficio dal farlo.

Un ultimo appunto, dal punto di vista cognitivo e comportamentale, sul sistema di addebito delle commissioni che attualmente non prevede un esborso chiaro e trasparente, magari con bonifico bancario, addebito su conto corrente o transazione con carta di credito.

Dan Ariely, professore di psicologia ed economia comportamentale alla Duke University, sostiene in effetti che “se non vediamo il costo, non sentiamo il dolore del suo esborso. Non siamo quindi consapevoli di pagare se non sentiamo il dolore di pagarla.”

Al fine di rendere il cliente davvero consapevole dei costi sostenuti per il servizio di consulenza, e per consentirgli quindi di valutare la bontà del servizio o il confronto con servizi simili, non esiste altro modo che il pagamento di una parcella chiara e trasparente. Come peraltro già avviene con qualunque professionista della consulenza (avvocato, commercialista, architetto), a cui i consulenti finanziari desiderano ardentemente essere paragonati.