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RECESSIONE GLOBALE: CHI L’HA VISTA?

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(WSI) – A giudizio di alcuni economisti l’attuale congiuntura economica mondiale non assomiglierebbe agli Anni 30 del secolo scorso, quanto piuttosto ai Settanta, cioè un contesto dove la pressione inflazionistica determina il rallentamento globale e la riduzione del prodotto potenziale. Come negli anni Settanta, infatti, oggi ci troviamo con tassi d’interesse reali di mercato monetario in media negativi, e ciò alimenta una serie di bolle speculative. Secondo un’analisi dell’economista Joachim Fels, di Morgan Stanley, il tasso d’inflazione medio globale ponderato si situa oggi al 5,4 per cento, a fronte di tassi di mercato monetario del 4,3 per cento.

L’accumulazione di pressioni inflazionistiche ha portato alla creazione di bolle speculative, come quella immobiliare negli Stati Uniti, agevolata anche dall’innovazione finanziaria che ha potenziato il rilassamento degli standard creditizi. Quando l’eccesso di moneta ha terminato di dare la caccia ai pochi asset disponibili, con lo scoppio della bolla immobiliare, ha finito col volgersi alla caccia di merci, contribuendo ad alimentare l’inflazione delle materie prime. Secondo alcune stime il livello dei tassi d’interesse di equilibrio, tali cioè da garantire la stabilità dei prezzi, si trova oggi negli Stati Uniti alcuni punti percentuali sopra il valore corrente. Discorso analogo per la Banca Centrale Europea, sia pure con uno squilibrio meno eclatante di quello statunitense, grazie alla fermezza con cui Trichet ha gestito la politica monetaria, resistendo a fortissime pressioni politiche e mediatiche.

In altri termini le banche centrali, che hanno dapprima alimentato l’accumulazione di bolle speculative, si trovano ora a gestirne lo scoppio, ma il rallentamento da ciò causato e la perdita di credibilità nella gestione della politica monetaria negli Stati Uniti, paese-chiave dell’economia mondiale, hanno indotto una domanda aggiuntiva di materie prime di natura finanziaria, con finalità di protezione dall’inflazione. Da qui deriva l’ascesa di alcune commodities: alla robusta e crescente domanda reale si è sommata una domanda finanziaria di “protezione”, e quest’ultima appare sganciata dal ciclo economico. Per questo le previsioni “rassicuranti” in base alle quali i prezzi delle materie prime sarebbero destinati a flettere per effetto del rallentamento statunitense non si stanno realizzando.

Ma l’aumento del prezzo delle materie prime energetiche non fa altro che drenare potere d’acquisto dai consumi, e le banche centrali si trovano soggette ad un drammatico dilemma di politica monetaria: non possono alzare i tassi in funzione antinflazionistica perché così facendo ucciderebbero definitivamente la congiuntura, ma tenendo i tassi stabili (o riducendoli) finiscono con l’accentuare il fenomeno dei tassi reali negativi, che alimentano inflazione e corsa alle materie prime. Se oggi l’inflazione appare meno rampante che negli anni Settanta è a causa soprattutto della sostanziale assenza di inflazione salariale. La deregolamentazione dei mercati del lavoro e la globalizzazione hanno progressivamente ridotto i salari reali, spostando la bilancia della distribuzione del valore aggiunto a favore del capitale. Ma salari reali in diminuzione significano minori consumi, condizione ulteriormente aggravata dall’attuale restrizione del credito. La scomparsa dei consumi spegne il principale motore della crescita, data l’incidenza della spesa delle famiglie sul pil.

A ciò si aggiunge il protezionismo montante; è evidente ed inequivocabile che il commercio internazionale crea anche perdenti. Ma quando la congiuntura peggiora il loro numero aumenta significativamente, la loro capacità di organizzarsi politicamente si accentua. Ma il protezionismo è, per definizione, un formidabile generatore di stagflazione: in questo senso oggi siamo messi peggio degli anni Settanta, un periodo in cui la liberalizzazione del commercio si stava lentamente sviluppando. Abbiamo quindi descritto uno scenario stagflazionistico quasi da libro di testo.

Che evoluzione attendersi? Lo squilibrio americano, che si traduce in un poderoso deficit delle partite correnti, necessiterà ancora per molto tempo di un dollaro strutturalmente debole, ma anche così, data la struttura dell’economia statunitense (dove il peso della manifattura sull’export è sui minimi storici), non dobbiamo attenderci alcun riequilibrio rapido e miracoloso. Le aree del pianeta in surplus commerciale (segnatamente la Cina) stanno a loro volta lottando contro una crescente pressione inflazionistica, e difficilmente riusciranno a destinare quel surplus allo stimolo della domanda interna, ed al conseguente sviluppo delle importazioni. Noi pensiamo quindi ad uno scenario di recessione più protratta (anche se non necessariamente più profonda) rispetto all’ottimismo di quanti ipotizzano una congiuntura a forma di V, che implica una ripresa rapida e vigorosa.

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