Società

PRODI DI DESTRA?

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(WSI) –
Il progetto di innalzare l’età pensionabile ha fatto scattare la protesta dei sindacati. Ma l’elenco dei provvedimenti che stanno imbarazzando non poco l’elettorato di centrosinistra è lungo. E Prodi non è Tony Blair…

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Ora è sceso in campo anche Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, il sindacato di riferimento dell’Unione: «Sulle pensioni era meglio lo scalone di Maroni». Epifani si riferisce al mix di progetti predisposti dal ministero dell’Economia: innalzamento da subito dell’età minima pensionabile a 58 anni, disincentivi (cioè pensione più magra) per chi si ritira prima dei 60-62 anni, revisione peggiorativa dei coefficienti che determinano l’assegno pensionistico.

Troppo per i sindacati, e troppo anche per buona parte della maggioranza: non solo la sinistra radicale se anche i ds stanno prendendo le distanze da Tommaso Padoa-Schioppa. Il problema centrale sollevato da Epifani è questo: «Ma si può pensare di riformare le pensioni in 20 giorni? Ma dove si fa così?». E’ un sentimento largamente diffuso nel cosiddetto popolo della sinistra. Le avvisaglie si erano avute per tutta l’estate: da una parte la commissione europea, a guida socialista, che incalza a tal punto l’Italia ad adottare una politica di rigore da provocare la risposta risentita di Romano Prodi: «Mi sarebbe piaciuto tanto zelo anche in passato…».

Dall’altra uno stuolo di economisti di area Ulivo intenti a suggerire al governo, in certi casi ad intimare, tagli a raffica in tutti i settori: sanità, pubblico impiego, fisco, e appunto previdenza. Sulla carta tutto, o molto, giusto.

Che nel settore pubblico si annidino parecchi fannulloni è un dato di fatto. Come intervenire, con gli strumenti attuali, è però altra cosa. La legge non consente i licenziamenti, salvo casi gravissimi, e neppure i trasferimenti. Mai attuata neppure una politica di aumenti davvero di merito: i cosiddetti incentivi per la produttività mascherano i ritocchi a pioggia non contemplati dai rinnovi contrattuali.

Che fa dunque il governo Prodi? Taglia i fondi al settore pubblico bloccando gli accordi integrativi. In questo modo, però, si puniscono tutti, i meritevoli come i fannulloni, esattamente come gli aumenti generalizzati premiano tutti.

Stessa cosa per la sanità. Alcune regioni sfondano il budget previsto, scattano le sanzioni che consistonoi in aumenti automatici d’imposta. Ma ad aumentare è l’Irap, che colpisce le aziende e di riflesso i dipendenti. Sarebbe più logico che aumentasse l’Irpef regionale: senonché in questo modo i vari governatori e assessori dovrebbero risponderne più direttamente sul piano elettorale. Non solo.
Per sanare lo squilibrio il governo annuncia la reintroduzione dei famigerati ticket. Anche in questo caso non si agisce sul meccanismo degli sprechi, ma si colpiscono a valle le tasche dei contribuenti. Ma allora a che sono servite le liberalizzazioni dei farmaci di Pierluigi Bersani?

Ancora. Il governo ha messo nel mirino la legge Biagi. Ma anziché regolare meglio i contratti flessibili e intervenire a tutela dei precari (magari con un reale fondo per la disoccupazione, come fanno tutti i governi laburisti), si inviano gli ispettori del lavoro nel call center che lavorano per la Telecom. L’azienda non è in regola (c’era qualche dubbio?), e adesso l’intero settore minaccia licenziamenti e trasferimenti all’estero. Un boomerang.

L’elenco potrebbe continuare (magari estendendosi a compiti e costi della missione in Libano).
Ma una cosa appare certa: Romano Prodi non è Tony Blair – così come Silvio Berlusconi non era Margaret Tatcher – ed un governo di sinistra non può fare politiche di destra. Tanto meno questo.

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