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PAURA PER ISRAELE

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(WSI) –
Se guardo a Israele dopo questi venti giorni di guerra, dopo le grandi distruzioni di città e villaggi libanesi, dopo le stragi d´innocenti, provo un senso di paura. E non è paura d´Israele: è paura «per Israele». Nella forsennata, terribile violenza che i suoi comandi militari stanno impiegando in Libano, nella rigidità politica, nella mancanza d´idee, del governo Olmert, non riesco infatti a vedere quel che avevo sempre visto in quarant´anni di conflitto arabo-israeliano. Vale a dire la forza d´Israele.

Certo, l´aviazione è quella di sempre: una delle migliori del mondo. E tutto il resto dell´apparato militare è ancora molte volte superiore a qualsiasi minaccia militare dovesse venire al momento, ma anche nel prossimo decennio, dai paesi confinanti.

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L´Iran le sue atomiche deve ancora costruirle, Israele ne possiede già un centinaio. E allora perché non riesco più a vedere, come in ogni altra guerra che gli israeliani hanno combattuto dal 1948 in poi, la loro forza? Perché questo sentimento – ancora confuso, ancora indefinibile in termini concreti – d´una debolezza d´Israele? Da dove viene, per dirla tutta, questa sensazione d´una precarietà d´Israele?

Ci sto pensando da giorni e qualche risposta mi viene man mano alla mente. Gli errori politici dei governi israeliani di destra o di sinistra, la tragica avventura della colonizzazione nella Palestina dei palestinesi, il senso d´impunità che Israele ha sentito in questi decenni – qualsiasi violenza o ingiustizia stesse compiendo nei Territori occupati – grazie alla ferrea, e tante volte stolida, protezione americana. Tutto questo ha scavato dentro la forza del paese: ne ha sottratto gli ideali della fondazione, l´orgoglio delle vittorie sugli eserciti arabi, il senso di giustizia che pervade l´intera tradizione ebraica.

Col passare degli anni, la vista d´Israele s´è accorciata, annebbiata. La sua classe politica, scomparsi i grandi personaggi che avevano costruito lo Stato degli ebrei, s´è andata facendo sempre più grigia, mediocre.
L´«establishment» militare ha assunto un peso sempre maggiore nelle scelte e decisioni politiche. Gli errori si sono moltiplicati, la sicurezza degli anni seguiti alla folgorante vittoria del ‘67, s´è fatta arroganza. E la fisionomia meglio visibile dell´Israele tra gli anni Settanta e il Duemila, è divenuta quella d´un paese colonialista. D´un insieme di governi, e d´una società, che non solo rifiutavano categoricamente di rendere giustizia al popolo palestinese, ma gli sottraevano le terre, l´acqua, la dignità.

In quegli anni, la forza d´Israele restava tuttavia pressoché intatta.
La svolta, le prime crepe nell´immagine della sua potenza, si verificheranno infatti nel 2001: l´anno in cui compaiono le bombe che camminano. Il panorama tutt´attorno allo Stato ebraico, il clima ideologico, sono ormai cambiati. L´integralismo islamico sta dilagando. I giovani palestinesi non entrano più nei settori radicali di Al Fatah, pronti ad imbracciare un mitra per combattere contro l´occupazione. Adesso si fanno filmare col Corano nella destra e una cintura esplosiva nella sinistra poi vanno a seminare la morte nelle città israeliane.

Il Muro, la costruzione del muro per difendersi dagli attentatori suicidi, è già, per il paese con le tecnologie più avanzate della regione, e provvisto d´una enorme potenza militare, il segno d´una incombente sensazione di debolezza. Per quanto ambiguo, poco limpido nelle intenzioni, il ritiro da Gaza costituisce nell´agosto scorso un altro segnale: Sharon, l´uomo che più ha voluto e spinto la colonizzazione a Gaza e in Cisgiordania, capisce che il quadro strategico è mutato, e che da una parte almeno bisogna mollare la presa.

E s´arriva così all´oggi. In Iraq, il grande protettore, la superpotenza americana, è sul bordo della «débâcle». Dagli ambienti accademici degli Stati Uniti escono studi ponderosi, ancora due o tre anni fa del tutto impensabili, che mettono in dubbio la coincidenza tra interessi politici americani e interessi politici d´Israele. Sia pure sfocata, diminuita dagli orrori dei kamikaze di Hamas, in Europa sopravvive una diffusa, quasi unanime solidarietà per i palestinesi. E intanto, integralisti e fondamentalisti islamici d´ogni fede, grado e provenienza si fanno dappresso, sempre più vicini e sempre più aggressivi, attorno a Israele.
Sbraita l´iraniano Ahmadinejad, che promette la cancellazione dello Stato ebraico dalla carta geografica del Medio Oriente. Sbraita e il mondo civile non reagisce.

Non ritira un ambasciatore da Teheran, non riesce ad ottenere la sospensione degli esperimenti nucleari iraniani, sembra pensare soltanto al petrolio, agli affari.
Se Ahmadinejad arringa il mondo islamico contro Israele, Hamas spara raffiche di razzi Qassam da Gaza sulle città israeliane del Negev. E´ vero: i Qassam non hanno fatto molte vittime forse – se la memoria non m´inganna – una decina in cinque o sei anni. La risposta militare israeliana è invece violentissima, e diverrà ancora più distruttrice, assurda, dopo il rapimento del caporale Shalit e l´uccisione d´altri due soldati di Tsahal il 23 giugno.

Questa risposta, l´ho detto, è assurda, perché taglia l´erba sotto i piedi della parte moderata della società politica palestinese, rafforza gli integralisti e i terroristi, chiude ogni spiraglio di dialogo. Ma quale stato sovrano potrebbe permettere, senza reagire, che sul suo territorio piovano i razzi nemici? Del resto, il piano dei nemici è congegnato da tempo. E infatti nel pieno dell´offensiva israeliana su Gaza, entra in scena il «Partito di Dio» libanese. Su un confine restato ancora abbastanza calmo, gli hezbollah rapiscono altri due soldati e ne ammazzano nove.
Israele, giustamente, risponde ed è quest´altra risposta, quel che l´aviazione sta facendo in Libano, a seminare i timori di cui dicevo all´inizio. La paura «per Israele».

Per quel che si apre adesso, in termini di nuove violenze regionali, di condanna del mondo intero, di parossismo islamico, davanti ad Israele. Perché questa risposta è priva di qualsiasi lume politico. Non calcola conseguenze politiche, ripercussioni psicologiche nel mondo che guarda da lontano gli eventi, e soprattutto è vuota di qualsiasi riflessione sul futuro. Sul futuro d´Israele. Perché le stragi libanesi peseranno sul futuro degli israeliani.
Perché i morti di Cana spingono al margine del mondo civile un paese democratico, folto d´intelligenze con un prestigio mondiale, e rischiano di ridurlo alla condizione d´un appestato.

Questa è la paura «per Israele». Cosa s´è incuneato nel suo animo, nella sua psiche, e lo conduce a questa condotta insensata? Forse è vero se non è senz´altro vero che i terroristi del «Partito di Dio» tengono i razzi forniti dal demagogo Ahmadinejad nelle abitazioni civili, e a volte li sparano proprio da lì, dalle case stipate di vecchi, donne e bambini. Ma quelli che l´aviazione israeliana sta facendo in Libano non sono «danni collaterali». Sono stragi di civili. Quel che un esercito modernissimo, e un governo capace di guardare al futuro del proprio paese, avrebbero dovuto evitare.

Questa è la paura «per Israele». Il timore che la sua crescente solitudine ne abbia in buona parte oscurato la ragione. Il timore che il paese non abbia più fiducia, attese, propositi, se non nell´uso della forza militare. Il timore che Israele stia sentendo arrivare (mentre noi ancora non ce ne rendiamo conto) anni cruciali. I suoi anni più duri, nei quali potrebbe essere in gioco la sua stessa sopravvivenza.

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