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NUOVI EROI. DOPO MANGANO, TARTAGLIA

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Filippo Facci e’ redattore del quotidiano Libero, posta sul blog Macchianera da cui abbiamo tratto l’opinione. Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – Berlusconi sfregiato da un disturbato mentale. Di Pietro, venerdì, l’aveva previsto.

Conosce bene i suoi elettori.

Quando si dice la coda di paglia. Peter Gomez e Marco Travaglio, qualche minuto fa, hanno scritto sul loro blog: «Da parte nostra, assicuriamo che andremo avanti come sempre».

E chi gli aveva detto niente? O forse si sentono tirati in ballo per la faccenda del celebre «clima d’odio» e cose del genere?

Antonio Di Pietro, invece, l’abbiamo visto: scambia per pericoli i suoi desideri e paventa scenari foschi nei quali sguazzerebbe: grida «al fuoco» quando ha ancora i cerini in mano. Venerdì ha detto: «C’è un clima da scontro di piazza, il governo è sordo alle richieste dei cittadini e se non si assume responsabilità ci potrebbe scappare l’azione violenta». Poi, dopo una moderata reazione di Maurizio Gasparri (che aveva detto «Di Pietro è fuori da una condizione di lucidità mentale») ha controreplicato: «Mi accusano di sobillare la piazza quando ho solo lanciato l’allarme del rischio concreto che milioni di cittadini esasperati facciano saltare il banco».

Il rischio. Il desiderio, appunto. E’ da sei mesi che l’italiota dei valori presagisce catastrofi così da poter dire di averle previste. Sue parole del 17 luglio scorso: «Saremo protagonisti dell’autunno caldo… saremo nei consigli di fabbrica e nelle piazze in difesa dei cassintegrati e dei lavoratori…. Credo che potrebbero tornare sia le Brigate Rosse pilotate che quelle non pilotate, entrambe criminali». In realtà l’autunno è stato caldo per via del clima, e di ritorni delle Brigate Rosse, incrociando le dita, non si ha notizia: a parte i 17 rinvii a giudizio chiesti dal pm Ilda Boccassini alla fine dell’ inchiesta sulle cosiddette nuove Br.

Un altro delirio fu questo: «Dall’inchiesta di Palermo mi aspetto molto… si potrebbe riscrivere la storia italiana per quanto riguarda i grandi omicidi di mafia… soprattutto per quanto riguarda il grande riciclaggio di persone di oggi». Si aspettava molto. Ha avuto poco.

Intanto, com’è noto, le folle ha continuato a invocarle: «Il 5 dicembre scendiamo in piazza contro il governo, chi non sarà con noi sarà alla stregua del governo Berlusconi» disse cercando di mettere cappello su tutto, more solito. Ma tutte queste sono cose che si sanno, non ci sarebbe da occuparsi del parolame dipietresco se non servisse per azzardare addirittura un ragionamento.

Vediamo. Copiatore professionista, è probabile che Di Pietro abbia cogitato l’uscita sugli scontri di piazza dopo aver sbirciato l’inchiesta di copertina che il Venerdì di Repubblica pubblicava appunto venerdì: «L’italia che non ci sta», una sintesi ossia del Rapporto «Gli italiani e lo Stato» curato da Ilvo Diamanti. Gli ingredienti forniti dal politologo, cucinati da Repubblica, in sostanza si traducevano nel titolo «Rabbia, sfiducia e vergogna, il Paese torna in piazza» e dettagliavano la crescente tendenza di svariatissime categorie sociali, provate dall’emergenza economica, a partecipare a manifestazioni di protesta: ciò che Di Pietro teme e desidera, come detto. Ma a leggere bene il rapporto – Di Pietro si sarà limitato a guardare le figure – emerge chiaramente che le categorie politiche e sociali che appaiono più motivate e scendere in piazza appartengono comunque al serbatoio dell’opposizione dintorni, quindi a una porzione di Paese che tende comunque a scendere in piazza a fasi alterne. Da qui l’inganno: perché se cresce la voglia di piazza, ma rimane intatta la fiducia nel governo – il che è sostanzialmente vero, siano o no esatte le stime berlusconiane – è chiaro che la pulsione de «l’Italia che non ci sta» resta comunque interna alla sinistra, diversamente dalla cosiddetta maggioranza silenziosa che in piazza non ci scende tradizionalmente mai: anche se la crisi, invero, pesa anche su di essa.

In parole povere: a scendere in piazza è sempre lo stesso pezzo di Paese. Di Pietro dovrebbe saperlo bene, oltretutto: anche ai tempi di Mani pulite, quando da magistrato aveva un favore dell’opinione pubblica oscillante dal 90 al 95 per cento (anni 1992-1993) a manifestare davanti a Palazzo di Giustizia era perlopiù l’Italia gruppettara di sinistra (pur mascherata da «società civile») e al limite quella post-fascista in comunione d’intenti: mai, di converso, scese in piazza il celebre centro del Paese, quello che la rivoluzione, nello stesso periodo, la fece davvero: ma la fece nelle urne.

Uno scenario, questo, che per questo governo potrebbe anche sembrare rassicurante. La celebre «maggioranza degli italiani» o «gli italiani» sono espressioni care anche al centrodestra, ma la moderazione del Paese appunto moderato, vista di spalle, palesa tuttavia un rischio: che il proscenio de «l’Italia che non ci sta» resti permanentemente occupato da chi – come fa Di Pietro, o fa lo stesso Gruppo Espresso – tende come visto a definirsi «L’Italia» e basta, intesa come la sua parte migliore e decisiva. La piazza, in certa misura, è di chi se la prende. Il governo, nelle intenzioni, anche. Insomma, «L’Italia che non ci sta», chiassosa minoranza travestita da maggioranza, è da sempre l’antipasto di ogni possibile ribaltone. A di Pietro interessa questo, è chiaro.

Detto questo, la quantità di sciocchezze sparate ogni giorno da Antonio Di Pietro produce un effetto quasi narcotico, un ronzio di fondo, come per una zanzara cui si finge di abituarsi dimenticando che le peggiori pandemie della Storia le hanno diffuse proprio i ditteri, i succhiatori di energie altrui. L’abitudine a un personaggio che ci ammorba quotidianamente con le sue tattiche da marciapiede fa dimenticare che una strategia di fondo Di Pietro tuttavia ce l’ha, anche se molti fingono di non vederla: i media danno risalto a ogni sua sparata come se esporla corrispondesse al tempo stesso a una sua relativizzazione, a una forma di controllo, come si fa con un cane che lasci abbaiare perché almeno sai che non ti morderà. Ma è un errore. E pure frequente, in Italia. Di Pietro è un personaggio che farebbe qualsiasi cosa e che infatti la sta facendo, pur mimetizzato dal suo sciocchezzaio di contorno e dal suo essere tutto e niente: grillino, politico, magistrato, ministro, reazionario di destra, movimentista di sinistra, spregiudicato compilatore di liste locali, tutto. Di Pietro, un passo alla volta e spalleggiato da una discreta compagnia di giro, punta allo sfascio di ogni baluardo di riferimento, all’inasprimento di ogni conflitto istituzionale, alla delegittimazione progressiva degli ultimi basamenti da noi ritenuti intoccabili: per esempio – assai più di Berlusconi – la Presidenza della Repubblica.

Il resto, ossia le più elementari dinamiche democratiche, cerca di svuotarle di significato da anni: è lui ad ergersi a personificazione e presidio del contrasto tra magistratura e politica, è lui ad accodarsi ai balordi che straparlano di dittatura e fine della democrazia (si accoda perché lui non inventa mai: copia, si impossessa, succhia appunto le energie altrui) ed è lui a spiegare che va tutto male, che il peggio è sempre alle porte, che c’è disinformazione e plagio delle coscienze. Gianni Baget Bozzo, che è morto ma che è uno dei pochi che comprese da subito, circa un anno e mezzo fa scrisse questo:

«Che cos’è il partito giustizialista che Di Pietro sta costruendo? È un partito che tende a dimostrare che la democrazia è essenzialmente corrotta e il corpo elettorale sbaglia. Che ci vuole un altro potere per guidare il Paese sulla via della salvezza e che il voto degli elettori deve essere presidiato da un partito dell’ordine. Il tema che lo Stato non possa essere affidato alla democrazia è la tesi fondamentale del pensiero reazionario. Se un popolo sente frustrato il bisogno fondamentale di sicurezza, se non riesce a ottenere con il suo voto ciò che pensa gli sia dovuto, si ha la crisi della democrazia. E Di Pietro mira proprio a questo, a mostrare che un corpo elettorale capace di dare la maggioranza a Berlusconi è un popolo immaturo, il cui voto va corretto in modo adeguato. Bisogna dimostrare che il popolo ha torto e che Berlusconi deve andarsene».

Come? In qualsiasi-modo-possibile. Ecco perché non gli importa niente di sputtanare il Paese con le sue uscite puerili sparate sull’Herald Tribune in coincidenza con un momento in cui la parte sana del Paese tifava appunto per il Paese, non per mezzo voto in più da guadagnare tra gli imbecilli. Il che guida e motiva ogni sua uscita, compresa questa su Berlusconi che è lui che «istiga». I disturbati mentali.