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INVESTIRE
IN OBBLIGAZIONI

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(WSI) – Nel 2001 l’Argentina, l’anno dopo la Cirio, nel 2003 la Parmalat e poi qualche altro crac di dimensioni però minori: Giacomelli, Fin. Part. ecc. Mezzo milione di risparmiatori italiani si sono ritrovati col cerino acceso in mano, ovvero con obbligazioni che non pagano più gli interessi e con la prospettiva di recuperare solo una piccola parte delle somme investite.

Così molti si domandano: “Non ci si può fidare più di nessuno e non resta che tenere i soldi sul conto corrente?”. In banca colgono la palla al balzo per proporre con ancora più insistenza gestioni e fondi comuni, da cui invece conviene stare alla larga. Si può perdere altrettanto e addirittura di più (il caso di Ducato Geo Europa Alto Potenziale del Monte dei Paschi di Siena insegna!) e comunque ci si ci espone a rischi che evita chi fa sé. Se infatti le vittime delle obbligazioni andate a carte quarantotto sono circa 500 mila, i danneggiati dal risparmio gestito e dalla previdenza privata sono nell’ordine dei 9 milioni: questo è il vero cancro che erode i risparmi degli italiani.

Difendersi dall’inflazione

Ma torniamo alle obbligazioni. Per chi s’accontenta di rendimenti normali, che attualmente non sono esaltanti, esistono soluzioni che permettono di dormire sonni tranquilli. Sono i titoli indicizzati al costo della vita emessi o garantiti dalla Repubblica Italiana, Francese o Greca. Agli attuali livelli dell’inflazione il loro rendimento nominale varia dal 2,3 al 3,8 per cento, al netto delle imposte. Coprono quindi comunque la perdita del potere d’acquisto dei soldi, dovuta all’aumento medio dei prezzi, e nei casi migliori fruttano grosso modo l’1,5% anno più dell’inflazione.

Non è tanto, ma è sensibilmente più di quanto rendono le obbligazioni, apparentemente simili, che le banche italiane propinano ai loro malcapitati clienti. Andando in banca bisogna infatti lottare strenuamente per non trovarsi sul groppone i prodotti della casa, che regolarmente sono alternative di seconda, terza o quarta scelta. Per cui si dovranno superare alcune difficoltà per passare un ordine d’acquisto per gli stessi italici BTPi, molte per le OATei francesi, moltissime per farsi comprare le Infrastrutture (ex Anas) 31-7-2019 2,25% codice Isin IT0003621452, probabilmente il titolo più sicuro disponibile sul mercato. Con una garanzia dello stato e indicizzate all’inflazione italiana, rendono più di tutte le emissioni bancarie simili.

Bastoni fra le ruote

Continuo però a ricevere e-mail e telefonate che mi segnalano banche che con vari pretesti le rifiutano a chi le vorrebbe acquistare. Per curiosità ho provato a chiederle io a un paio d’intermediari con cui opero ed entrambi me ne davano quante ne volevo, a conferma che non le trova solo chi non le vuol trovare. A chi non è competente della materia, e quindi non in grado di rispondere per le rime, raccontano per esempio che il taglio minimo è 100.000 euro, quando invece è 1.000 euro. Ma questa è solo una delle tante menzogne con cui le banche italiane cercano di non perdere neanche un’occasione per raschiare quattrini dai risparmii dei loro clienti.

Clamoroso il caso di un correntista del Sanpaolo Imi che si è sentito dire prima che erano proibite ai privati; gli ha rinfacciato che ciò è falso e allora gli hanno risposto che rientravano in un elenco di titoli che avevano ordine di non vendere ai clienti, perché poco liquidi. Il che è davvero il colmo della faccia tosta, perché il Sanpaolo Imi, come il Credito Italiano, il Banco di Roma ecc. da anni rimpinzano i loro clienti con loro emissioni, ancor meno liquide perché non quotate né trattate sull’euro mercato, come invece è il caso delle Infrastrutture 2019 2,25%.

Guadagnare di più

Però c’è anche chi vuole ottenere di più e allora c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Esistono infatti obbligazioni che rendono il 6% e oltre emesse dalla Fiat, dalla Kamps del Gruppo Barilla, dalla Colt Telecom ecc. Ci sono poi titoli della Russia, del Brasile, della Turchia o quelli del Perù. Altri esempi si trovano sui quotidiani economici e qualcuno lo segnalo nella mia pagina su Internet all’Università di Torino (www.beppescienza.it), liberamente consultabile.

Avventurandosi in questo terreno, un risparmiatore vorrebbe però non incappare in casi come, appunto, la Parmalat. Peccato che non esistano ricette collaudate a tal fine. Non è neppure vero che le emissioni che rendono di più siano sempre le più rischiose. Quando nel 2002 le banche italiane scaricavano sui loro clienti le Cirio, i titoli del Brasile rendevano molto di più e palesemente – già col senno del prima – erano meno rischiosi. Analogo discorso per le obbligazioni Fiat nell’estate 2003, quando rendevano più delle Parmalat. I titoli di stato rendono più dei certificati di deposito bancari, certo non altrettanto sicuri.

Anche il rating, che sarebbe un giudizio qualificato sui rischi di un’obbligazione, lascia il tempo che trova, come s’è visto con la Parmalat. Prive di ogni utilità sono invece valutazioni come il cosiddetto kilovar di Banca Unicredit o tutta la montatura di Patti Chiari.

Diversificare

In compenso mantiene piena validità la più tradizionale delle strategie difensive. Ovvero quella classica di suddividere il proprio portafoglio fra obbligazioni di emittenti diversi, non collegati l’uno all’altro. Quindi mettere al massimo il 2-3% in titoli di una stessa società (Fiat, Pirelli, Goodyear ecc.) o stato (Turchia, Brasile, Russia ecc.). Tutto questo è scomodo? Certo che è scomodo, ma ci vorrà ben un po’ di fatica per ottenere risultati sopra la media!

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