Società

IL DISEGNO
DI OLMERT

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(WSI) –
Non sappiamo ancora fino a che punto Israele intenda spingere, dopo i morti di Cana, le proprie operazioni militari. Ma oggi, dopo tre settimane di combattimenti, un primo bilancio è possibile. La risposta israeliana al raid degli Hezbollah nel territorio nazionale è stata sin dall’inizio la prosecuzione di un disegno politico con altri mezzi.

Come Ariel Sharon, Ehud Olmert era deciso a completare il ritiro da Gaza con una radicale riorganizzazione della presenza ebraica in Cisgiordania. Occorreva liberare una parte importante della regione dalla presenza dei coloni, raggruppare gli insediamenti in alcune zone più facilmente difendibili, completare la cinta di sicurezza che avrebbe separato il territorio israeliano da quello dell’entità palestinese. All’origine di questo disegno vi sono ragioni politiche e demografiche.

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Ariel Sharon sapeva che quattro milioni di ebrei non possono governare indefinitamente quattro milioni di arabi e che occorreva dare a questi ultimi una casa. Ma non voleva che questa casa fosse uno Stato interamente sovrano, ed era deciso a perseguire questo obiettivo unilateralmente, senza aprire un tavolo negoziale che avrebbe modificato lungo la strada il progetto israeliano e concesso all’entità palestinese più diritti e prerogative di quanto Gerusalemme non fosse disposta a consentire.

Quando i palestinesi andarono alle urne e votarono liberamente per Hamas, Israele sostenne che il nuovo governo era espressione di una organizzazione terroristica e non poteva essere considerato l’interlocutore di una soluzione negoziata. E quando la fazione radicale di Hamas, altrettanto decisa a evitare qualsiasi forma di negoziato, rapì un caporale israeliano, Olmert accettò la provocazione e reagì con una operazione duramente punitiva.

È questo il momento in cui Hezbollah decise di entrare in campo. Ed è questo il momento in cui Olmert ritenne che era giunto il momento, per meglio realizzare il progetto unilaterale avviato da Sharon, di liquidare il dispositivo militare del «partito di Dio» nelle province meridionali del Libano. Mentre lo stato maggiore israeliano contava di completare l’operazione in un paio di settimane, il governo di Gerusalemme era pronto ad accettare, in una fase successiva, la presenza di una forza internazionale che avrebbe garantito la frontiera settentrionale di Israele da altre incursioni.

Privato del sostegno degli Hezbollah e confinato nella striscia di Gaza, Hamas avrebbe smesso di essere, per Israele, un fattore di disturbo. Nella prima fase dell’operazione il governo Olmert ha potuto contare sul sostegno degli Stati Uniti, sui tentennamenti dell’Europa e sulla comprensione di una larga parte dell’opinione pubblica occidentale. Oggi, dopo tre settimane di combattimenti, il disegno di Olmert appare compromesso. Le truppe israeliane si sono scontrate con forze combattenti composte da guerriglieri, non terroristi, che conoscono il territorio e hanno costruito sotto di esso una efficace Maginot sotterranea.

La distruzione del Libano e le vittime civili hanno suscitato disagio negli Stati Uniti e una crescente indignazione nella società internazionale. La strage di Cana ha dato un duro colpo all’immagine di Israele nel mondo. E la durezza delle rappresaglie ha creato nei paesi arabi un bacino di potenziali reclute in cui Hamas e Hezbollah potranno pescare a piene mani i militanti di domani. Tocca a Israele ora trarre da queste vicende una lezione. La crisi non è soltanto a Beirut. È anche a Gerusalemme.

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