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I DANNI DI UN PAESE DA OPERETTA

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(WSI) – C’e’ il sarcasmo dei commentatori internazionali di destra e sinistra per una campagna elettorale finita con raffiche di «oscenita’ e calunnie» (Washington Post e Financial Times di ieri).

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Ma c’è anche la solita immagine di un’Italia da operetta che si affaccia sui giornali di Rupert Murdoch (antico alleato di Berlusconi), dal Times di Londra all’Australian. E, sullo sfondo, lo spettro di un «rischio Argentina» per l’Italia. Perché stupirsi se una campagna elettorale infuocata ha fatto nuovi danni all’immagine internazionale dell’Italia? Era già nel conto, anche se molte cronache sono state farcite con rancidi stereotipi che hanno infranto la barriera del ridicolo.

Caricature spesso offensive, ma è inutile indignarsi: del resto anche George Bush viene quotidianamente sbeffeggiato dalla stampa americana e internazionale e nessuno si scandalizza, nemmeno alla Casa Bianca. È sicuramente vero che pregiudizi e arroganza nei confronti dell’Italia sono di casa nel mondo anglosassone, come rilevava ieri Pier Carlo Padoan sul Riformista. Ma quello di scrollarci di dosso l’immagine di Paese «divertente ma inaffidabile» è un problema che abbiamo da decenni. Una campagna elettorale segnata, prima, dalle sortite veterocomuniste di qualche esponente della coalizione di Prodi e poi dalla scelta di Berlusconi di alzare i toni dello scontro, non poteva che peggiorarlo.

Un epilogo non inevitabile: quando ha fatto scelte sagge – ad esempio indicando, per la Banca d’Italia, Mario Draghi – o si è comportato da statista (come a Washington, un mese fa), il Cavaliere ha ricevuto ampi riconoscimenti. Ma le cadute di stile degli ultimi giorni e la pretesa di negare la realtà di un bilancio della legislatura assai magro, hanno irritato anche la stampa che gli dovrebbe essere più vicina: il Wall Street Journal, organo conservatore per eccellenza, ha titolato il suo ultimo editoriale sulle elezioni italiane «Don Coglioni». Titolo ironico di un articolo tutt’altro che di «colore» nel quale si accusa Berlusconi di non aver rispettato il principale impegno elettorale preso nel 2001: ridurre le tasse.

Pur apprezzato dai conservatori Usa per alcune sue scelte coraggiose, Berlusconi è sempre stato guardato con una certa diffidenza per la sua incapacità di fare breccia nella parte più apprezzata della classe dirigente italiana e per gli atteggiamenti folcloristici divenuti, all’estero, il marchio di una sgradevole «diversità»: in America l’uso di un’espressione considerata oscena non solo è impensabile da parte di un politico di rango, ma la sua trasmissione anche casuale da parte di una rete tv può indurre l’authority delle comunicazioni a comminare multe pesantissime.

Un altro caso significativo è quello di cui è stato protagonista Giulio Tremonti, il principale artefice della «rimonta» di Berlusconi nei sondaggi. Due mesi fa al Forum di Davos, davanti a Nouriel Rubini – autorevole economista della New York University originario di Istanbul – che vedeva per l’Italia il rischio di «finire come l’Argentina», il nostro ministro dell’Economia reagì con comprensibile irritazione, ma andò oltre il segno: il suo «se ne torni in Turchia» ha indotto molti economisti stranieri a dare la loro solidarietà a Rubini e ha innescato la pubblicazione di una serie di articoli sull’instabilità «sudamericana» dell’Italia che ci saremmo francamente potuti risparmiare.

Eccoci, così, alla vera questione: orgoglio ferito a parte, questa campagna elettorale surriscaldata lascerà in eredità danni economici rilevanti? Anche se una grande banca come Goldman Sachs suggerisce gli investitori di spostarsi dai titoli italiani a quelli tedeschi, la risposta è che, almeno nell’immediato, i rischi sono limitati perché lo scudo dell’euro per ora rende impossibile penalizzare l’Italia con tassi d’interesse sostanzialmente diversi da quelli applicati nel resto d’Europa. Certo, le cose cambierebbero in caso di un abbandono della moneta unica. Ma lo stesso Rubini – il cui blog economico è il più seguito d’America – ritiene che, anche se l’Italia non imboccasse la via delle riforme, ci vorrebbero cinque anni per arrivare al collasso dell’euro. Difficilmente, quindi, i mercati scommetteranno ora su questa ipotesi. Ma i nostri spazi di manovra continuano a calare a vista d’occhio.

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